CAPITOLO PRIMO


L’inizio è un inizio come tanti.

Da vero masochista all’ultimo stadio ho acceso lo stereo e ho messo su la canzone più triste del mondo. Poi mi sono sdraiato sul letto e ho preso la sua foto in mano, quella che le avevo fatto al mare l’anno scorso, Gallipoli, 10 agosto 1996, e che tengo sul comodino. La guardo. Abbronzata, bikini azzurro e volto sorridente. Glielo sfioro appena, il volto, all’altezza delle labbra appena più in alto, sotto la punta del naso.

Mentre la guardo mi dico che magari oggi ce la faccio a non piangere, ma appena i Sottotono iniziano a cantare la famosa canzone più triste del mondo, quella lenta e struggente che dice mi volto indietro per cercare di capire, ecco che scoppio in lacrime come un bambino a cui hanno rubato il gioco preferito. Le lacrime premono calde sotto le ciglia, e poi scivolano giù lungo le guance. E bruciano la pelle. Come graffi.

Non solo il dolore mi sembra insopportabile, una stretta umida alla bocca dello stomaco, ma faccio anche fatica a respirare. Forse è davvero dolore, o forse è solo quest’afa che impregna ogni cosa, immobilizza l’aria e mi appiccica le lenzuola alla pelle.

Cerco un perché per cui dare il meglio / cerco un motivo per restare sveglio, cantano ancora i Sottotono.

E intanto, mi dico, sono all’inferno.

È stata lei, la mia ex ragazza, il motivo di quel viaggio.

Mi aveva lasciato tre giorni prima degli esami. Un lapidario non ti amo più scarabocchiato su un fazzolettino di carta infilato nel freno del mio scooter erano state le sue uniche parole.

Avevo affrontato gli esami nella più totale incoscienza. L’agitazione dei miei compagni di classe era lontana da me mille miglia, un altro mondo, una sorta di quarta dimensione che non mi toccava minimamente. Il fatto è che l’unica cosa di cui m’importava era lei.

Lei. Due anni insieme e poi più nulla.

Per giorni 1 avevo sommersa di telefonate. Mi diceva ne riparliamo dopo i tuoi esami, poi gli esami erano finiti e non era cambiato niente. Lavevo aspettata sotto casa, l’avevo pregata, quasi supplicata. Avevo sperato e pregato, pianto e sperato ancora.

Ma lei non mi aveva dato nessuna spiegazione. Solo quel non ti amo più. che per me non voleva dire niente.

E poi era partita per Gallipoli insieme ai suoi genitori. In vacanza. A casa degli zìi.

In vacanza.

Fino a settembre.

Ci sono le impronte delle mie dita sulla foto. Piccoli aloni opachi che le trasformano il sorriso in un ghigno. Allontano la mano e gli aloni si riassorbono.

Dopo averti regalato tutto quel che avevo / mi hai lasciato solo l’anima...

Si, è proprio come essere all’inferno. Credo.

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