CAPITOLO NONO

A nemmeno un chilometro dall’uscita Rimini-Sud, Lele dice e adesso, tutti a farcì un bagno.

Ecco. Io credo che il vero viaggio sia cominciato a partire da quel momento. Da quella frase buttata li, quasi per scherzo, e senza pensarci su troppo.

Si. Credo che l’avventura sia cominciata in quell’istante.

E le cose che vennero dopo furono anelli necessari di una catena infinita. Che partiva da lontano e scendeva dentro di noi.

-    Come sarebbe a dire un bagno?

-    Un bagno. Un tuffo nell’acqua, una nuotata, insomma...

-    Me ne frego. Hai detto niente fermate.

-    Scherzavo...

Mentre imbocchiamo lo svincolo mi chiedo perché non l’ho fermato, Lele. Perché, invece di stare zitto, invece di ribattere debolmente, non gli ho detto no, non se ne parla nemmeno. Non lo so perché non l’ho fatto. O perché non l’ha fatto Becco.

O forse si che lo so. Forse perché in quel momento Lele si è tolto gli occhiali e i suoi occhi hanno brillato. Un guizzo appena, ma lucido e profondo proprio al centro dell’iride.

O forse perché quello è stato il momento in cui ho capito che quella cosa importante ce l’aveva anche lui. La stessa cosa mia e di Becco, ma in un certo senso diversa.

Era l’ansia. L’affanno. Quella specie di dubbio o di sottile tormento che ci spinge a cercare e a scavare, quella sorta di confuso, informe e sotterraneo bisogno che hanno alcuni di correre incontro alle cose. Con l’unica differenza che Lele, per sentirsi vivo, non ha affatto bisogno di correre incontro alle cose. Non è come me o come Becco. A lui non serve qualcuno dentro cui rifugiarsi. A lui non serve una dimensione dentro cui perdersi. A lui basta afferrare le cose quando queste gli scorrono accanto. A lui basta aggrapparsi alla loro scia come ci si aggrappa al lembo di una corda, e tenerle strette e farsi trasportare mentre succedono. È questo che forse gli serve per sentirsi vivo. Vivere le cose che gli succedono, tutte e tutte insieme, seguire la scia per vedere cosa c’è in fondo. Tutte e tutte insieme, per vedere dove portano. Tutte e tutte insieme, perché ognuna potrebbe essere quella giusta e portare nel luogo che si stava cercando.

Forse è questo il motivo per cui sono stato zitto e ho lasciato che imboccasse lo svincolo d’uscita. Per quel guizzo veloce negli occhi e per quella cosa importante che hanno solo alcuni. Quella cosa senza forma che forse si chiama inquietudine.

Lele, che è stato previdente, ci presta un paio di boxer.

—    Anche il costume firmato, - dice Becco.

—    È in queste occasioni che si vede l’eleganza.

—    Ma fammi il piacere!

La spiaggia è gremita di gente. Una distesa colorata di ombrelloni e teli da bagno. Una distesa infinita di persone che parte dal bar e arriva fin dentro l’acqua.

Io lo odio il mare: 1) perché al mare ci venivo con lei, 2) perché odio il mare di Rimini in piena stagione. Odio la lotta per conquistarsi mezzo metro di spiaggia, odio gli schizzi di acqua e le vagonate di sabbia quando il simpatico di turno ti corre sopra la testa mentre tu sei sdraiato. Odio il vociare dei bambini, odio le radioline che ti bombardano di musica mal sintonizzata e odio me stesso per essermi lasciato infinocchiare da Lele.
Il mare mi piace solo quando non c’è nessuno. Nemmeno gli ombrelloni. Il mare all’alba. O poco prima del tramonto, quando tutto intorno è silenzio e gabbiani, e l’acqua, il cielo e l’aria si asciugano in un unico ritmo, limpido e perfetto.

-    Io non lo sopporto il sole, - dice Becco mentre ci incamminiamo in fila indiana lungo la passerella di cemento. - Io mi scotto, al sole.

Lele che è il primo della fila, si volta appena e dice: — Insom-ma, ma voi due la vita non sapete proprio godervela. Siamo a Rimini, ragazzi! C’è il sole, un’acqua stupenda...

-    Be’, proprio stupenda non direi...

-    ... e un sacco di ragazze. Ma vi rendete conto? Non c’è posto migliore dove stare.

-    Un posto ci sarebbe, - dico. — In macchina diretti a Galli-poli.

-    Dio, come sei monotono...

-    Non si tratta di essere monotoni, si tratta che stiamo perdendo un sacco di tempo.

-    Ehi rilassati. E ti giuro che dopo si va dritti filati...

-    Certo, certo, dacci un taglio, va’!

Però, devo riconoscere che un po’ ci divertiamo. Specialmente quando Becco ripete per la trecentesima volta non insistete ragazzi ho detto che il bagno non lo faccio. Allora, a me e a Lele, ci basta un’occhiata. Becco non fa nemmeno in tempo a dire ba che, urlando come pazzi, lo afferriamo per le braccia e per le gambe e lo gettiamo in acqua. È buffo vederlo annaspare a mezz’aria. Ma ancora più buffo è quando riemerge dall’acqua e con un’espressione stupita dice meeerda che volo.

Dopo, ce ne stiamo sdraiati in riva al mare. E devo ammettere che non è poi male. Non è poi cosi brutto il mare di Rimini in piena stagione. Basta guardarlo da un’altra prospettiva. Ed ecco che, cosi ad occhi chiusi, alcune cose sembrano più profonde e più lente. Come se nascessero da dentro. Il risucchio delle onde quando tornano indietro, per esempio. Oppure il riverbe-lo dei passi della gente sulla sabbia. Altre cose, invece, sono lon-une e confuse. Come le voci e gli schiamazzi, che sono quasi un mormorio ma ancora più sfumato. E poi ci sono altre cose, quelle che senti con la pelle, per esempio, che sono invece nitide, definite, totali. Il sole che ti asciuga le gocce addosso e sembra quasi che le assorba una ad una. Oppure la brezza. Che è solida c compatta quando si infila fra i capelli bagnati, entra nelle orecchie e le fa fischiare.

Mi rilasso cosi tanto che alla fine mi addormento. E che ho dormito me ne accorgo perché mi sveglio di scatto. L’effetto è i liiello di una corrente che mi risucchia con violenza verso l’alto.

La voce è quella di Becco. È sdraiato a pancia in giù e adesso mi parla senza staccare gli occhi dal libro che sta leggendo. Mi ( liiede se mi piace Whitman o qualcosa del genere. Io annuisco d’istinto. Mi giro anch’io a pancia in giù e mi ci vuole un po’ per capire che la luce è cambiata. È di una tonalità più rosa, .idesso, quasi arancione. AH’improwiso mi ricordo di qualcosa.

-    Puoi fare a meno di guardare l’orologio. Sono quasi le sei.

-    Le sei? È tardissimo, dov’è Lele?

-    Secondo me puoi scordarti di arrivare a Gallipoli stanotte, -dice. Mi guarda col suo solito modo tranquillo e indifferente e io mi agito. Poi, con una lentezza esasperante solleva l’indice della mano destra e indica qualcosa. La linea ideale che il suo dito traccia finisce su un lettino quasi di fronte a noi. E sul lettino quasi di fronte a noi c’è Lele sdraiato accanto a una tipa.

-    Lei passava di qui e l’ha riconosciuto. Ti sei perso un grande incontro, sai? Baci, abbracci e un sacco di complimenti. Pensa, si sono conosciuti l’anno scorso proprio su questa spiaggia e si sono amati. Roba di un weekend, ma molto intenso. Guarda tu il destino, ha detto lei, vengo qui dopo un anno e chi ti incontro? E di nuovo baci e abbracci...

-    Ma mi stai prendendo per il culo?

-    Ti sembra che abbia voglia di scherzare?
—    Ma noi dobbiamo andarcene! Perché non gli hai detto niente? Perché non mi hai svegliato? E smettila di guardarmi cosi!

Mi guarda a lungo, Becco. Mi fìssa come se volesse passarmi attraverso. È serio, Becco. E il tono di voce è basso, quasi rauco, quando dopo un po’ mi chiede: - Perché hai accettato?

-    Accettato cosa?

-    Di farti accompagnare da lui.

—    Che significa...

Esita un attimo prima di continuare. Il suo sguardo è intenso. Un ponte rigido tra i nostri occhi.

—    Lui non ci vuole andare in Inghilterra. Farà di tutto per...

—    Ma che stai dicendo?

Distoglie gli occhi da me, adesso. Li abbassa un istante, poi li solleva di nuovo. Guarda Lele e non dice niente. Io fisso il profilo del suo volto, il triangolo del suo occhio che è quasi una fessura. C’è qualcosa che mi sfugge. Che non capisco.

Guardo Lele anch’io. Sussurra qualcosa all’orecchio della ragazza e lei ride.

-    Perché non dovrebbe volerci andare in Inghilterra. Si divertirà un sacco là...

-    I suoi si stanno separando. È questo il motivo per cui lo mandano via.

-    Cosa?

Becco gira di nuovo la testa e mi guarda.

—    Farà di tutto per non partire.

C’è qualcosa che mi sfugge e che non capisco. Qualcosa che sta accadendo fuori, a Lele e a Becco. Qualcosa che mi sta accadendo dentro. Fili che si incontrano e che si riannodano. Cose che non so ma che intuisco. È una nuova realtà quella che si sta spalancando.

Mentre sono li avverto come un brivido che mi passa attraverso e si dilata in Becco. Continuiamo a parlare senza guardarci.
-    Tu come lo sai? Della separazione, intendo.

-    Lo so.

-    Sembra che Lele reagisca bene, però.

-    Appunto. Sembra.

A volte succede che le cose cambiano. Un leggero scarto che dura lo spazio di un niente. A volte succede che te ne accorgi che qualcosa sta cambiando. Ma il modo, la forma in cui queste cose cambiano, è questo quello che non sai. A volte succede che le cose che cambiano sono una sensazione forte, un dito che ti gratta dentro, da qualche parte.

Quel pomeriggio, mentre il sole scendeva senza fretta e la spiaggia poco a poco si svuotava, e io e Becco eravamo li sdraiati l’uno a fianco dell’altro a parlare, è successo che le cose stavano cambiando. Per un attimo dimentico la fretta e il motivo di quel viaggio. Per un attimo l’unica cosa che m’importa è capire la natura di quel filo che ci lega.

-    Becco?

-Si?

-    Perché abbiamo accettato?

-    Non lo so.

-    Ma un motivo ci deve essere.

-    Già. Un motivo ci deve essere.

Nessun commento:

Posta un commento