CAPITOLO SECONDO


Sono le sei di sera e sono insieme a Becco e Lele in un bar del centro. Sapevo che li avrei trovati li. A Bologna i posti dove andare sono veramente pochi, alla fine di luglio.

Fa ancora troppo caldo e i jeans mi fasciano le gambe e sembrano trascinarmi verso il basso. Sono sudato, appiccicoso, neanche ci fossi arrivato a piedi e di corsa in centro.

Lele mi saluta sollevando una mano dal bracciolo della sedia. Becco alza appena gli occhi dal libro che sta leggendo e dice oh.

Rimango a sedere sul sellino dello scooter. Improvvisamente mi prende una gran tristezza, con questo caldo e questo sole che fondono e assorbono tutto in una patina gialla e pesante. Rimpiango il guscio della mia camera, il lenzuolo umido di caldo e le canzoni tristi.

Il pensiero di lei si fa più forte. E allora per ricacciarlo nel fondo buio che ho dentro la testa guardo Lele e Becco e mi perdo nei dettagli. Mi ci perdo sempre nei dettagli quando sto male. E adesso quello che vedo è solo il colletto stretto della camicia di Becco, una ciocca bionda dei suoi capelli che si curva a ricciolo sulla punta del naso, le sottolineature a matita sulla pagina del libro che tiene sulle ginocchia, e poi ancora, uno a uno, altri dettagli, come la mano di Lele agganciata al bicchiere di cocacola, le goccioline di condensa che gli scivolano sotto i polpastrelli, la punta del suo piede che segue il ritmo della canzone che esce dalle porte del bar.

Carmen Consoli e la sua voce a singhiozzo.
I miei occhi si fissano sull’aria immobile. Su quell’atmosfera estiva che avvolge ogni cosa come in una pellicola trasparente e viscida. Che rallenta e soffoca tutto. E che attutisce i suoni, i movimenti e i colori.

Sto per mettere in moto e andarmene quando Lele dice si va a Rimini stasera?

-    Neanche se mi vieni a prendere sotto casa, mi paghi per uscire e mi offri da bere tutta la sera, - risponde Becco senza staccare gli occhi dal libro.

-    Non l’ho chiesto a te, guardavo Ale, non te.

-    Ale è in piena crisi sentimentale e il rutilante mondo delle discoteche potrebbe dargli il colpo di grazia, - dice Becco.

-    Ma che ne sai tu!

-    Ma piantala.

-    Ma piantala tu!

Vanno avanti per un pezzo. Fanno sempre cosi, Becco e Lele. E mentre li osservo in silenzio mi chiedo come facciano ad essere amici, loro due. Mi chiedo come facciamo, noi tre, ad essere amici.

Ma non lo eravamo prima di quel viaggio. Lo capimmo dopo, alla fine, che prima veri amici non lo eravamo mai stati realmente.

Me lo chiedo. Le amicizie che nascono sui banchi di scuola, al liceo, sono strane. Non te li scegli gli amici, a scuola. Ti capitano. E noi tre eravamo cosi diversi.

Il soprannome Becco glielo aveva messo Lele per via del naso e proprio il primo giorno di scuola. Si è sgraziati e goffi a tredici anni. Sproporzionati. E la prima cosa che si notava in Becco era proprio il naso. Sottile. Ma lungo e con la gobba.

Eravamo finiti in fondo all’aula, in tre banchi vicini.

-    Ehi, Becco, prestami una penna che la mia non scrive.

-    Non mi chiamo Becco! Mi chiamo Adriano.
-    Adriano non me lo ricorderò mai.

E cosi quel soprannome gli era rimasto. Anche se adesso il naso si notava molto meno.

Non ho mai capito se a Becco desse fastidio quel nome. Era un distaccato Becco, un contemplativo, come diceva lui. Inutile dirlo, era il primo della classe. Studiava e scriveva in continuazione. Alla domanda imbecille della professoressa di italiano su cosa avremmo voluto fare da grandi, lui, serio e un po’ annoiato, aveva risposto: lo scrittore. 0 forse il poeta. Non so. Lele gli aveva riso in faccia e al primo compito in classe di greco Becco si era vendicato. Lele gli aveva fatto arrivare sul banco un biglietto con su scritto: come si traduce tétegmai? Allora Becco, con tutta calma, gli aveva fatto cenno di aspettare. Aveva sfogliato il vocabolario, ci aveva pensato, aveva guardato la versione e alla fine aveva scritto la risposta: vai a pagina 1833 del vocabolario. Arrangiati.

Loro due erano cosi.

Lele considerava Becco, con tutti i suoi libri di poesia e tutte le sue citazioni colte, un intellettualoide rompiballe e Becco considerava Lele l’incarnazione del concetto di ignoranza, la quintessenza della superficialità e non da ultimo un viziato.

Che Lele fosse un viziato e un superficiale lo pensavo anch io. Anche se a volte lo invidiavo. Oltre ad essere bello e pieno di soldi — suo padre era notaio e sua madre avvocato — con le ragazze aveva sempre avuto una fortuna sfacciata. Tutte gli correvano dietro e tutte, una volta mollate, piangevano. Perché lui le donne le cambiava con la stessa facilità con cui ci si cambia una camicia.

E io lo invidiavo.

—    Tu sei un sentimentale, — mi diceva. E detto da lui non sapevo se fosse un complimento o un’offesa.

Vanno avanti per un pezzo a litigare. Non sono mai d’accordo su niente, loro due. Sono troppo diversi. Siamo troppo diver si, noi tre. Per Becco esistono solo i libri e le parole. Per Lele le ragazze e le discoteche, per me... be’, forse sono solo l’anello di congiunzione, un ponte fra i loro mondi, una sorta di collante. O di paciere.

—    Hai intenzione di startene appollaiato sul tuo scuterino tutto il pomeriggio? — dice Lele socchiudendo gli occhi per il sole.

—    Me ne torno a casa. Non è storia oggi.

Becco richiude il libro e mi guarda. Mi fìsso sul suo pollice che tiene infilato tra le pagine per non perdere il segno. Ci scompare fra quelle pagine. Come inghiottito da una bocca.

—    Ci penserai tutta l’estate? - chiede.

—    A che?

—    A lei.

—    Si. No. Non lo so. Lunedi comincio a lavorare con mio zio.

—    Vai a fare il muratore? — chiede Lele. Dice muratore piegando gli angoli della bocca verso il basso. La sua espressione è esattamente quella che si dice una espressione di disgusto.

—    Incredibile Per Lele ogni cosa che comporta fatica, sporco e sudore è incredibile.

—    Magari ci penso di meno, — dico.

—    Uh. Bella estate. Bella davvero. E tu, — chiede rivolto a Becco, — che fai questa estate?

—    Un interessantissimo corso di pittura. E anche uno di scrittura creativa.

—    Meraviglia! Una vacanza trasgressiva, eh?

Dall’espressione di Becco mi dico che adesso ricominciano a

litigare.

—    E tu? Che fai? — mi affretto a dire.

—    Mio padre mi ha pagato un viaggio di un mese in Inghilterra. Parto martedì. Vi spedirò una cartolina.

Ma noi non lo sapevamo ancora, quel pomeriggio, che dietro a quelle parole c’era in realtà una scheggia di tristezza. Non lo sapevamo che non erano quelle le cose che volevamo fare. Che nessuno dei tre avrebbe fatto quello che si era proposto, questo, non lo sapevamo ancora.

La decisione di raggiungerla in Puglia mi si forma in testa senza preavviso. Arriva dal niente e mi esplode dentro, sboccia come un fiore.

-    Ragazzi io parto, vado da lei.

—    Tu sei pazzo, — dice Becco guardandomi da sotto in su come se pazzo lo fossi davvero.

È sera e soffia una leggera brezza. Ci sono alcune nuvole in cielo, rotonde, grosse e viola. Hanno i contorni argentati, quasi opachi, quelle vicino alla luna. Forse verrà un temporale. Le nostre parole si perdono un po’ nell’aria.

Siamo seduti al solito bar e ci stiamo annoiando a morte.

-    Prendo il treno, magari domattina. Vado giù, le parlo e poi torno. Quanto credete che mi ci voglia? Due giorni? Due giorni e mezzo?

—    Tu sei pazzo.

Guardo Lele per avere almeno da lui un po’ di sostegno. Anche lui mi guarda, anzi a dire il vero mi sta proprio fissando e quel suo modo di fissare mi fa paura. Sta pensando qualcosa, e non mi piace quando Lele pensa e fissa contemporaneamente. E ancora di più quando pensa, fissa, e sta zitto.

-    Voi non capite un tubo, io sto male e voi non capite un tubo. Si vede che non siete mai stati innamorati.

—    È il tempo che hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa cosi importante, — dice Becco citando II Piccolo Principe di Saint-Exupéry. E lo dice lentamente, modulando la voce in un tono basso, assorto. Lontano. Come se lo dicesse a se stesso. Mi aspetto che Lele gli risponda una cosa tipo e questo che cazzo c'entra adesso, invece non dice niente. Continua a fissarmi, insistente e silenzioso. A lungo. Cosi a lungo che mi sembra stia succedendo da una vita.
Ma alla fine parla. Gli occhi gli si illuminano, apre la bocca e dice: — Ti accompagniamo noi.

—    Cosa? — dice Becco.

—    Cosa? — dico io.

Lele si raddrizza sulla sedia. — Ho avuto un’idea meravigliosa. Prendiamo la mia macchina, quanto hai detto? Due giorni...

—    Non ci penso neanche, - interviene Becco. - Io? Due giorni insieme a te?

Lele non lo ascolta nemmeno. - Oggi cos e, giovedì? Partiamo domattina e sabato, massimo sabato notte siamo a casa...

—    Scordatelo! — continua Becco. — Metti che succeda qualcosa? Lunedi iniziano i miei corsi...

—    E lui deve andare a lavorare e io devo partire per l’Inghilterra. E allora? — ribatte Lele stizzito. — Ce la facciamo. Tu cosa pensi?

—    Non lo so... - E non lo so davvero. Sarebbe la prima volta che facciamo qualcosa insieme, noi tre.

—    Andiamo... — È eccitato e agitato, Lele. Come un bambino. O come se questo viaggio fosse davvero importante per lui.

—    Sono solo due giorni, e poi ognuno farà quello che deve fare... Sara divertente. Sono appena due giorni...

E invece, i giorni, furono molti di più.

Ma noi, questo, non lo sapevamo ancora.

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