CAPITOLO DICIANNOVESIMO

La prima cosa che io e Lele notiamo è l’andatura di Becco. Sono le nove e mezza di sera quando lo vediamo girare l’angolo ed entrare nell’aia.

Cammina a testa bassa, lentamente, le mani sprofondate nelle tasche dei jeans e il ciuffo di capelli che gli ondeggia sulla fronte. Dapprima è solo una sagoma nera che fa strisciare i tacchi delle scarpe nella polvere, poi mano a mano che si avvicina, il fuoco che io e Lele abbiamo fatto lo rischiara. Una luce tremolante che crea chiazze d’ombra in movimento sulla sua camicia e sul suo volto. È la forma delle labbra e la piega delle sopracciglia a tradire il suo stato d’animo. Non è triste, Becco, non solo. È affranto e stanco. Una stanchezza che nasce da dentro, però.

Appena lo abbiamo visto sbucare, ho alzato il braccio e stavo per chiamarlo, ma Lele mi ha appoggiato la mano sulla spalla e ha detto ma cos’ha?

E in quel momento che ce ne siamo accorti. Cosi ho abbassato il braccio e abbiamo aspettato che si avvicinasse.

Adesso è seduto sopra il suo sacco a pelo, di fronte al fuoco. Le gambe piegate e le mani intrecciate attorno alle ginocchia. Fissa le fiamme e le fiamme si muovono e ondeggiano dentro i suoi occhi, che brillano, lucidi. Troppo lucidi, e quando abbassa le palpebre, lentamente, due lacrime sottili gli rotolano giù veloci. Sono come un segnale, quelle lacrime, il punto conclusivo di un’attesa, l’attimo in cui io e Lele scattiamo in ginocchio, preoccupati.

—    Lasciatemi stare. Non è successo niente, — dice Becco. Nessun gesto, nessun cambiamento di espressione, nessun movimento, solo quelle parole, incerte e ferme allo stesso tempo.

—    Cose successo? - chiede Lele. Non ci muoviamo, io e Lele. Sono quelle lacrime che ci bloccano. Fa sempre un certo effetto vedere qualcuno piangere, una cosa a metà tra l’imbarazzo e lo stupore. È una cosa che, benché naturale, non ti aspetti mai di vedere.

Becco si asciuga le lacrime con il dorso della mano, un unico gesto preciso. Poi alza gli occhi su di noi. Ci guarda a lungo prima di parlare. Uno sguardo denso che ci tiene sospesi, in equilibrio, e in attesa.

—    Lo sapete che ha conosciuto Cesare Pavese? No, non è questo che mi fa piangere, non sono cosi suonato...

—    Cosa è successo, Becco? — chiede Lele di nuovo.

Becco scuote la testa e sorride, un sorriso forzato, amaro. - L’ha incontrato nel ’36, in un caffè a Torino. Dice che se ne stava ore seduto al tavolo, da solo. Un giorno si sono messi a chiacchiera-re. Sembrava un uomo che avesse vissuto cent’anni, dice. Gli ha raccontato che era stato via per molto tempo, confinato in Calabria per le sue idee politiche, e adesso che era tornato aveva scoperto che la donna che amava si era sposata. 0 forse la amo perché l’ho perduta?

Io e Lele ci lanciamo uno sguardo veloce. Gli occhi di Becco stanno di nuovo fissando il fuoco. Il tono delle sue parole è lento e basso, una cantilena.

—    All'inizio aveva pensato che fosse ubriaco, non sapeva chi fosse. Eppure dice che il tormento che quell’uomo aveva scritto in faccia era smisurato, che non doveva essere un tormento solo d’amore, il suo. S’incontrarono anche il giorno dopo. È stato allora che gli ha detto di essere un poeta, uno scrittore. O meglio, credeva di esserlo. Diceva cosa resta della realtà quando l’hai messa in poesia? Cosa rimane là fuori e dentro di noi? Forse se non riesco più a produrre scoperte da usare in poesia mi sono sbagliato e non sono un poeta...

Sorride, Becco, e ci guarda. — Vi rendete conto? Ha conosciuto Cesare Pavese, ci ha parlato, per giorni si sono incontrati in quel bar e hanno parlato... Dice che era ossessionato. Dalla poesia, da quella donna e dal suicidio. Diceva che ci pensava spesso, in realtà teorizzo, diceva. Se non so vivere non so nemmeno morire, o no? Era come se tutta la sua vita fosse saltata in aria, dice, e lui stesse raccogliendo i pezzi per farne un bilancio. Però a volte, dice che quando parlava della poesia, di quel mestiere di poeta non faceva che ripetere quella cosa. Diceva: le parole bisogna amarle per capirle... Sapere incominciare daccapo ogni volta, come ogni mattina si comincia una giornata, amare le parole e crederci come si ama e si crede nella materia poetica nel momento in cui si plasma. Dice che era bellissimo stare ad ascoltarlo...

Ogni tanto la voce di Becco si incrina e si abbassa di tono. Adesso, mentre ci guarda, i suoi occhi diventano di nuovo lucidi, due macchie dilatate e liquide.

-    Non mi guardate cosi, non mi sono rincoglionito. Lo sapevo che quel vecchio aveva un sacco di cose da raccontare, ha conosciuto un sacco di gente, Gadda, Anceschi, Montale nel quarantotto, e anche Thomas Mann, in Germania, dopo la guerra... Oddio, sembra incredibile, quel vecchio ha vissuto gli anni di maggiore fermento, ci è passato attraverso e ha assorbito tutto, e oggi mentre lo ascoltavo... parlava delle cose che ha letto...

S’interrompe di nuovo. Rimane in silenzio a lungo. Non so cosa stia succedendo. Per quanto io e Lele ci sforziamo, lo so, lo sento da come lo guarda, dall’attenzione con cui lo fìssa, per quanto ci sforziamo non riusciamo a capire. È stato un lungo sfogo, quello di Becco, una sequenza caotica di parole che ci ha investito per poi spegnersi, esaurirsi, in un soffio.

Becco piange ancora, in silenzio, e mano a mano che le lacrime gli rotolano giù, lungo le guance, se le asciuga col dorso della mano, a un ritmo regolare ed esasperante. Io e Lele non abbiamo il coraggio di dire niente.

Poi, aH’improvviso ma lentamente tutto sembra scivolare, un cambiamento da qualche parte, un’esplosione lontana che modifica tutto, un rovesciamento o una ferita che si strappa.

-    Ero esaltato da quei racconti, - dice, - tutto quello che ho sempre cercato, tutto quello in cui ho sempre creduto era li, nelle parole di quel vecchio, le stesse sensazioni, la stessa tensione, lo stesso... amore per la letteratura... alla fine è stato un tormento, come se qualcosa dentro mi spremesse, mi stritolasse. Ieri, quando ho piantato giù il telefono a mia madre, non...

-    Becco... - lo interrompe Lele.

-    ... non sono riuscito a parlare con mia sorella, cosi questa sera le ho telefonato, anche lei aspettava che la chiamassi...

-    Becco...

-    ... non mi sono rincoglionito, Lele! È che quando lei mi ha detto che era arrivata una lettera...

-    Becco, ma di cosa stai parlando...

Stringo il braccio a Lele per fermarlo, d’impulso.

-    Ale, me l’hanno rifiutato anche questa volta, il mio romanzo, me l’hanno rifiutato...

-    Ma si può sapere di che cosa state parlando?

Poche parole, ed è facile raccontare a Lele del romanzo di Becco. È facile dire e registrare l’espressione di Lele, è facile capire. Quello che è difficile è assimilare fino in fondo. Interpretare i segnali che fino a quel momento Becco ha inviato. I suoi appunti, quella grafìa minuscola e stretta, la sua ossessione per i libri, è diffìcile. È come decifrare dei simboli e metterli nella giusta posizione, dargli il giusto valore, restituirgli l’esatta sostanza. La vita di Becco ruota attorno ai libri e alle parole a una velocità supersonica, un vortice violento e crudo che lo stringe sempre di più. Quell’immagine che ho sempre avuto di lui curvo su un foglio intento a scrivere, a raccogliere impressioni, a registrare emozioni, quell’immagine di lui anche a scuola, il suo impegno nello studio, la passione al limite del morboso per la poesia e la parola scritta, quell’immagine, adesso si precisa dentro di me e quello che vedo in Becco quando parla di letteratura e scrive e legge è una lotta estenuante contro se stesso. Perché lui quelle cose le ha dentro, un magma che ribolle e che brucia. Si precisa quell’immagine, adesso, e capisco che quello che Becco cerca nelle parole e nei libri è solo se stesso.

Becco ha smesso di piangere. Si è calmato, anche la tensione sembra essersi attenuata. Ma nonostante tutto, quello che rimane, e che io e Lele cogliamo, è qualcosa che va oltre un comprensibile senso di tristezza.

—    Non sapevo avessi scritto un romanzo, - dice Lele. C’è sorpresa nella sua voce.

—    Adesso lo sai anche tu, — dice Becco.

—    Quello che non capisco, però... è perché piangi —. Lele è in ginocchio. Stringe un rametto tra le dita e lo immerge tra le fiamme, lentamente. Una piccola spada che entra ed esce da un corpo immateriale. Quando dice questa cosa alza gli occhi e guarda Becco da sopra il fuoco.

—    Voglio dire, ci saranno un sacco di altre occasioni, hai tempo. Insomma, hai solo diciotto anni, non devi dimostrare niente, non puoi buttarti giù cosi alla prima sconfìtta...

—    Lele, è tutta la mia vita... È l’unica cosa di cui m’importa, fin da bambino l’unica cosa che ho sentito in forma chiara, l’unica cosa che ho sempre sentito dentro è solo questa: la letteratura. Lo so che forse è ridicolo... Oggi è come se mi fosse crollato il mondo addosso, forse mi sono sbagliato, forse ho sbagliato tutto...

—    Ognuno combatte contro qualcosa, Becco. Le delusioni e i dolori li hanno tutti. Le sconfìtte ci sono per tutti, Becco. Però tu hai qualcosa per cui vale la pena battersi, no? Qualcosa di grande. Io non la capisco questa cosa fino in fondo, però se è dentro di te fin da quando eri piccolo, vuol dire che è davvero qualcosa di grande.

Gli tremano le labbra a Lele. È imbarazzato, e forse sorpreso che quelle parole stiano uscendo proprio dalla sua bocca. Sta fissando il fuoco, adesso. Io e Becco lo stiamo ascoltando con attenzione e lui se ne rende conto perché piega le labbra in uno strano sorriso.

—    Non so se si dica cosi, però non ho mai visto in nessuno una tale dedizione, nemmeno nei prof a scuola. Prima, quando parlavi di Pavese l’hai fatto in un modo... era come averlo di fronte, riuscivo ad immaginarmelo, qualcosa di vivo... È stato bello ascoltarti, perché tu ci credi, si sente. Non come a scuola che i prof parlano parlano, senza trasporto e senza niente... E poi, il fatto che ci tormenti continuamente con le tue poesie, vorrà pur dire qualcosa?

Becco, piega la testa di scatto e sorride. - Oddio, non sarò mai un grande scrittore...

—    Becco, non smettere di provarci, e se non dovessi riuscire almeno ci hai provato. E comunque vada nessuno te la può togliere quella cosa...

Stanno succedendo strane cose, in questo viaggio. Lele che consola Becco, Lele che parla di cose grandi e che dice scusa, non avrei mai creduto che tutto questo fosse cosi importante per te.

Prima di addormentarci, come la sera prima è di nuovo Lele a chiamare Becco.

—    Becco?

-Si?

—    Ti volevo dire... Pensa a Gadda. Il suo primo romanzo non l’ha pubblicato a trentotto anni?

-Si.

—    Visto?
-    Lele?

-    Sl?

-    Senza offesa, ma tu come lo sai?

-    Mmh... niente... È stato Ale a dirmelo.

Ma non era vero. Io, questo, non glielo avevo mai detto.

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