CAPITOLO DICIASSETTESIMO

Il posto per dormire lo scegliamo appena fuori dal paese, nell’aia erbosa di una cascina abbandonata. Non so perché proprio quel posto. Forse perché ci passiamo davanti nel pomeriggio e per una volta tanto siamo d’accordo tutti e tre. Anche Lele. Forse è preoccupato per la macchina, o forse, a renderlo cosi remissivo e silenzioso, a giudicare dagli sguardi che di tanto in tanto lancia a Becco, è stato proprio il litigio del pomeriggio. Non c’è tensione tra loro, semplicemente si è eretta una barriera di silenzio, vischiosa e spessa come tutti i silenzi che nascono dalla volontà di isolarsi. E Becco quel pomeriggio si isola volutamente. Si è seduto sotto un albero, all’ombra, e ha iniziato a leggere. Ogni tanto si interrompe, apre il suo quaderno e scrive.

Il caldo è più secco, più ventilato, adesso. Dalla campagna attorno non proviene alcun rumore. L’aria non è immobile, ma è come se lo fosse, perché quel sole accecante, quella distesa di colline e quel cielo azzurro danno forma all’idea di immobilità. Ci sono i grilli, le cicale e ronzii di vespe e api. Qualche mosca e il fruscio leggero delle foglie sugli alberi. Ma quei rumori, quei suoni, li senti solo se ti concentri. Fanno parte del silenzio della campagna.

Io    e Lele ci siamo sdraiati all’ombra di un vecchio carro, dall’altra parte dell’aia, quasi di fronte a Becco. Abbiamo parlato di qualcosa, tipo che avremmo dovuto telefonare a casa per avvertire che il nostro viaggio si sarebbe prolungato, cose cosi, cose inutili. In realtà Lele pensava a Becco e alla sua reazione. Nemmeno io capivo fino in fondo l’ostinato isolamento di Becco. O meglio, non ci volevo credere. La mia era solo una sensazione, ma che quel vecchio avesse parlato di Rimbaud doveva aver colano Becco in un modo impressionante.

Circa a metà pomeriggio, quando io e Lele scartiamo i panini che abbiamo comprato all’autogrill, mi avvicino a Becco per ( hiedergli se ha fame.

-    No. Grazie.

Fisso il suo profilo chino sul quaderno, il suo ciuffo biondo e le sue labbra strette, concentrate su quello che sta scrivendo.

-    Si può sapere che ce?

-    Niente.

-    Non è vero.

Becco solleva le spalle e non mi risponde. Mi siedo accanto a lui e guardo in direzione di Lele. Anche lui mi sta guardando.

-    Lele ci è rimasto male per quello che gli hai detto. E se devo essere sincero nemmeno io ci sto capendo molto.

È stato quello il momento in cui Becco ha alzato la testa e mi lia guardato dritto negli occhi. C’era ancora quel movimento strano nelle sue pupille, un po’ come la notte prima a San Marino. Forse più lento e più triste. — Tieni. Leggi, — dice porgendomi il quaderno aperto.

Sono citazioni e riflessioni scritte alcune a matita e altre a penna. Una grafìa minuscola e pesante. Di quelle che arricciano

il    foglio e lo fanno scricchiolare. Becco sfoglia il quaderno indietro di qualche pagina e mi indica il punto.

Ha delle cose, comincio a leggere, il vecchio, dentro. Cose confuse. Ricordi, im?nagini, e sensazioni. Cose che non può dire perché sono troppe e si accavallano. Anche le cose belle sembrano tristi, dentro di lui. Guarda il mondo con i suoi occhi acquosi, in silenzio. Non può dire e raccontare perché le parole tremano e incespicano, come i suoi pensieri. Troppe parole per lui che non parla più. Ci vuole chiarezza per raccontare, e la chiarezza, quando le cose dentro sono troppe, svanisce. E allora tace, il vecchio. E le cose dentro, se le racconta a lui solo. Ma a volte qualcosa trapela da quello sguardo acquoso. È questa la tristezza dei vecchi: quella cosa che trapela. Specchio delle cose che non può più raccontare.

-    Capisci? - mi dice Becco alla fine. - Quando ha detto quella cosa su Rimbaud... Era una cosa bellissima... Non è un rimbambito che se ne sta abbandonato su una sedia come una cosa morta. Quando ha detto quella cosa ho pensato a tutti i vecchi che vediamo ogni giorno e che non degniamo di uno sguardo, semplicemente perché se ne stanno li, in disparte e in silenzio e sembra che non abbiano nulla da dire. Forse se io non assomigliassi a Rimbaud quel vecchio non mi avrebbe nemmeno guardato e non mi avrebbe nemmeno detto niente... Magari se mi avesse detto che assomigliavo a suo nipote mi avrebbe fatto meno effetto...

Ha parlato lentamente, Becco, lo sguardo immobile, dritto, agganciato ai miei occhi. Ha continuato a guardarmi anche dopo, come se da me si aspettasse una risposta.

-    Quando ho detto quella cosa a Lele, non ce l’avevo solo con lui, ma anche con me stesso. Perché se quel vecchio non avesse tirato fuori Rimbaud probabilmente avrei pensato di lui le stesse cose che ha pensato Lele. L’ho accusato...

-    Questa cosa che ho letto l’avresti scritta lo stesso.

-    Cosa?

-    Non parla di Rimbaud, questa cosa. O di scrittori o di poeti, o di letteratura. È una riflessione sui vecchi, non sulla potenza della letteratura. L’avresti pensata lo stesso questa cosa e avresti detto lo stesso quelle cose a Lele. Forse con meno foga, ma lo avresti fatto. Semplicemente, sapere che quel vecchio conosce Rimbaud ha fatto scattare questa riflessione in modo violento. Probabilmente siete sulla stessa lunghezza d’onda...

-    Non lo so...

-    Becco, è una bella cosa quella che hai scritto, Rimbaud non c’entra.
Si guarda la punta di una scarpa, Becco. Gioca con le stringhe, in silenzio.

—    Ale, credi che io sia intollerante? Voglio dire, credi che la mia reazione sia stata esagerata?

—    Vuoi sapere una cosa?

—    Cosa?

—    Lele ci tiene al tuo giudizio. Crede che tu pensi che sia uno stupido. E quello che gli hai detto oggi... insomma c’è rimasto male.

Becco lascia la stringa della scarpa e mi guarda. E i suoi pensieri è come se fossero addensati tutti li, in quello sguardo, e nello spazio tra gli occhi e la curva contratta delle sopracciglia.

—    Non ho mai pensato che fosse stupido. Anche i nostri litigi... Non sono mai niente di importante, è come un gioco anche se magari non ce ne rendiamo conto... Però a volte mi chiedo perché si comporti cosi, perché deve dire certe cose...

—    Becco, non siamo fatti tutti alla stessa maniera...

—    Lo so, però lui non capisce, deve sempre ridere di tutto, anche della letteratura o di quel vecchio che parla di Rimbaud.

—    Forse non dovresti prendere tutto cosi sul serio.

—    È questo il problema, Ale. Che non ce la faccio. Le cose che sono la tua vita non puoi fare altro che prenderle sul serio. E il divario è inevitabile. Forse il motivo per cui me la prendo è proprio perché non considero Lele uno stupido. Voglio dire, speri sempre che le persone a cui tieni possano capirti fino in fondo...

—    E glielo hai mai detto questo?

—    Certo che no!

—    E perché? Secondo me lo sottovaluti, Lele.

—    Ti sembrerà strano, ma lo so. Insomma, me lo sento.

—    Senti, — dico, - perché non vai a parlargli...

Mi blocco perché Becco ha abbassato di colpo lo sguardo e ha ricominciato a giocare con la stringa della scarpa.

—    Perché a volte è diffìcile. Parlare, voglio dire. E poi non credo che sia una buona idea. Almeno non adesso, forse pili tardi...
Lo guardo a lungo. Il suo senso di inadeguatezza sembra il mio. È per questo che non insisto. È per questo che mentre mi alzo per lasciarlo solo, dico: - Okay, non ti preoccupare —. Ma mi allontano solo di qualche passo quando Becco mi chiama.

-Ale?

-Si?

-    Grazie.

-    Di niente...

-Ale?

-Si?

-    Sono quelle cose che ti accadono dentro all’improvviso, non so come dire... Quando una scheggia di realtà più dura del solito ti penetra dentro e mette in moto quel meccanismo per cui hai voglia di stare solo e di pensare...

-    Si, lo so.

-    Non sono arrabbiato con Lele, è che...

-    Lo so. Credimi, ti capisco...

Lo so, Becco. Lo so.

E mentre attraverso l’aia mi succede. La sensazione è quella forte e un po’ strana di aver trovato qualcosa, di essere andato un po’ più a fondo e di avere scoperto quella cosa in più. Il dettaglio nell’angolo buio di un affresco, o la sfumatura essenziale di quella poesia ripetuta all'infinito.

Prima che chiudessero i negozi, siamo tornati al paese a comprare qualcosa da mangiare. Più che altro panini, sacchetti di patatine e lattine di coca. Becco e Lele non si sono parlati e mi sembrava strano essere insieme a loro senza sentirli litigare. Quando siamo entrati nel bar per telefonare, Becco ha cercato con lo sguardo il vecchio di quella mattina. Ma non c’era. Ce n’erano degli altri, un gruppo di quattro che giocava a carte e parlava ad alta voce, un altro signore che leggeva il giornale e altri due che discutevano e bevevano vino in un tavolo isolato.
Al telefono, mia madre ha chiesto se era successo qualcosa. Io le ho risposto che no, che semplicemente ci stavamo divertendo e che avevamo deciso di prolungare il viaggio. Lei, con quella sua voce cosi sottile e incolore da sembrare stanca, ha detto va bene, state attenti, e niente altro. Nemmeno quelle cose che dicono spesso i genitori quando vogliono ricordarti che si, va bene divertirsi, ma ci sono anche delle responsabilità. Ma lei non mi ha chiesto né detto altro. Nessun riferimento al mio impegno di lavoro, come se quella cosa, quella particolare responsabilità che mi riguarda non la interessasse. Come se quella cosa che mi riguarda se la fosse dimenticata.

Quello che provo, mentre riaggancio la cornetta è una sensazione che conosco, un buco, un vortice vuoto che produce altro vuoto, e che diventa più veloce e definito quando sento Becco alzare la voce con sua madre e dare spiegazioni e giustificare.

Mi allontano da Becco che gesticola e sbuffa ed esco dal bar. Per un attimo il vuoto si trasforma in invidia per quella cosa che a me non succederà mai. Convincere, spiegare e far valere le mie ragioni. Ma dura poco, perché ci sono abituato. Alla lontananza di mia madre, al suo mondo che si è chiuso, io ci sono abituato.

Solo più tardi, mentre torniamo alla cascina, mi rendo conto che Lele è l’unico che non ha telefonato.

L’idea di fare un fuoco al centro dell’aia e poi di sistemarsi attorno viene a Lele.

Le abitudini sono dure a morire. E tra gli amici, c’è tutta una serie di abitudini comportamentali, che sono codici, regole tacite, che per quanto uno ci provi non riesce ad infrangere. Meccanismi che sono la sostanza stessa di un rapporto. Cosi quando Lele ha cominciato a illustrare il metodo per fare un fuoco, con tanto di si fa cosi e cosà, me lo sentivo che Becco, dal modo in cui lo guardava, non ce l’avrebbe mai fatta a non intervenire.
—    È facile, - dice Lele. - Si prendono delle pietre e si mettono in circolo. Poi si prendono dei rametti sottili, si accendono e poi...

—    E dove l’hai letto? Nel manuale delle Giovani Marmotte?

—    Sfl E ho imparato anche a costruire una fionda!

—    E i nodi marinari, no?

—    No, mi si era strappata la pagina, okay?

—    Finalmente! — dico.

Lele e Becco si zittiscono e mi guardano stupiti. — Che c’è? -chiedono.

Allargo le braccia. - Finalmente. Cominciavano a mancarmi i vostri battibecchi, davvero, ve lo giuro, cominciavano a mancarmi.

E a quel punto ci mettiamo a ridere tutti e tre.

È una bella sensazione, quella di starsene qui cosi, di notte, con la campagna scura che si dilata in ogni direzione, una massa nera e viva che delimita il cielo. Il silenzio profondo e denso, rotto solamente dal canto dei grilli, e il fuoco che scricchiola. Le ombre che si disegnano sulla parete della cascina, che tremano e sembrano fiamme nere, lunghe e fragili.

È una bella sensazione, quella di essere soli al centro di qualcosa, quella di dividere questa cosa con qualcuno. Un senso di libertà e di lontananza, di onnipotenza quasi. E c’è un ricordo che arriva da lontano, quello che a cinque anni i miei genitori mi mandarono al campo estivo con le suore dell’asilo. Era il primo anno per me e l’idea di stare quindici giorni lontano da casa mi faceva paura. Si chiamava Piedimonte, il posto, ed è sugli Appennini, dopo Palazzuolo sul Senio, lungo la strada che va a Firenze.

C’era una vecchia casa isolata, di proprietà delle suore, enorme e piena di stanze. Una chiesetta vicina, e tutto il resto erano prati verdi e mucche che pascolavano. Agli altri bambini piaceva. Parlavano di bagni nel fiume e di gite nei boschi. Ma il momento più bello della giornata era la sera, quando faceva buio e prima di andare a letto ci si riuniva tutti nella sala grande al pianterreno. Quello era il momento in cui il prete raccontava la storia di paura. Erano sempre racconti di fantasmi, di morti che ritornano e di mostri che di notte venivano a bussare ai vetri della casa per spaventare i bambini. E mi ricordo che noi stavamo tutti seduti in silenzio ad ascoltare, il respiro trattenuto e il cuore che batteva forte, li nel buio illuminato dalle fiammelle delle candele, perché la corrente elettrica, lassù nella casa, non c’era. Ma la cosa che faceva più paura di tutte era la Prova di Coraggio. Era una sorta di rito che i bambini più grandi, i vecchi, facevano fare a quelli più piccoli o ai nuovi arrivati, ogni anno, prima della fine del campo. Quell’anno toccò anche a me. Durante la notte, il capo veniva a svegliarti e tutti insieme, di solito cinque o sei bambini, si scappava e si andava alla Tana dei Licantropi. La Tana dei Licantropi era una piccola grotta, poco lontana da li, lungo un sentiero in mezzo al bosco. Si chiamava cosi perché si diceva che li abitasse un licantropo. La Prova di Coraggio consisteva nell’incamminarsi da soli lungo il sentiero ed entrare nella grotta. Io non l’ho mai saputo se il licantropo c’era oppure no, perché tutto quello che ricordo è che mentre ero a metà del sentiero abbiamo sentito uno strano rumore, probabilmente l’urlo di una civetta e ci siamo spaventati. Cosi siamo schizzati via da quel posto alla velocità della luce, sgomitando e urlando come pazzi. Alla fine quando abbiamo raggiunto la casa, esausti per la corsa, ci siamo buttati sul prato e siamo rimasti li a lungo. Quando abbiamo ripreso fiato, ci siamo seduti tutti in circolo e abbiamo cominciato a inventarci storie terribili sul licantropo, che sicuramente c’era, che aveva sbranato un sacco di gente e che se quella sera non fossimo stati cosi svelti a scappare chissà cosa sarebbe successo.

Adesso, mentre sono qui insieme a Lele e a Becco, mi viene in mente quella notte mentre stavamo seduti sul prato a parlare. Il nostro bisbiglio, quel silenzio incredibile e la luna grossa nel cielo che schiariva le nostre sagome scure. E quella cosa strana che mi era venuta dentro e che non riuscivo a spiegarmi. Un senso di abbandono e di onnipotenza. Un’euforia incontrollata. Essere U insieme ad altri bambini, di notte, senza gli adulti intorno, mi faceva sentire se non grande, di sicuro diverso e unico. E noi, quella notte, lo eravamo diversi e unici. Diversi dagli altri bambini che in quel momento dormivano, e unici rispetto a tutti, perché eravamo soli e stavamo sperimentando la cosa più bella del mondo. Quella di essere liberi. Quello strano sentimento di unicità lo provo anche adesso. Forse per la situazione molto simile, o forse per questo cielo immenso, pieno di stelle e limpido. Forse per questo posto diverso, fatto di campagna nera a perdita d occhio. O forse perché semplicemente è notte e la notte, si sa, dilata i pensieri e le percezioni.

-    E bellissimo questo cielo, - dico all’improvviso.

-    Già, — dice Becco. — Giuro che se me lo avessero detto non ci avrei mai creduto che sarei finito qui.

Lele si sdraia sul sacco a pelo, puntellandosi su un gomito. Alza il naso per aria e dice: — Non mi ci fate pensare... Se penso alla mia macchina...

-    Questa notte dovevamo già essere a casa, - dico. - Vi rendete conto? Non siamo nemmeno a metà del viaggio.

Becco, che fino a quel momento era sdraiato, si solleva a sedere. - Voi non avete la sensazione di essere in viaggio da una vita? - dice guardando prima Lele e poi me. - Voglio dire, siamo partiti appena ieri mattina eppure sono successe cosi tante cose...

-    È vero, - dice Lele. - È come se il tempo si fosse dilatato, insomma è come se noi percepissimo le cose in modo diverso, non so...

-    Wow, che pensiero profondo! - dice Becco tirandogli una busta di patatine vuota. — Da te non me lo aspettavo...

-    Davvero?

-    Certo!
—    Grazie!

—    Ehi, questa è da segnare negli annali, - dico, — vi state facendo un sacco di complimenti, vi state rammollendo...

Mi sdraio sul sacco a pelo e incrocio le mani dietro la testa. Per un attimo rimaniamo in silenzio.

—    Ehi, Becco, - dice Lele dopo un po’. - Se non torniamo in tempo come fai con i tuoi corsi di pittura e scrittura?

—    Non mi ci far pensare. È la stessa cosa che mi ha chiesto mia madre al telefono Sento che si muove, Becco. E dal timbro di voce più basso intuisco che anche lui si è sdraiato. - Ha cominciato a dirmi un sacco di robacce e alla fine mi ha ordinato di tornare immediatamente a casa.

—    Non le avrai detto...

—    Certo che no! Le ho semplicemente detto che avevamo cambiato programma.

—    E lei?

—    Si è arrabbiata.

-E tu?

—    Le ho piantato giù il telefono.

—    Davvero? — dice Lele.

—    Si. La mia non è certo come tua madre, Ale. La mia rompe, non come la tua. Sei fortunato.

Non rispondo. Mi sento i loro sguardi addosso e per un attimo vorrei che non ci fossimo mai finiti su questo discorso. Fisso le stelle. Anzi le guardo senza vederle. Quello che sento è di nuovo quello strano vuoto.

—    Non è come pensi -. Mi è uscita cosi, la frase, d’istinto. Spero che non l’abbiano sentita, invece mi accorgo che mi rimbomba nelle orecchie. È un’eco nitida, amplificata, come tutte le cose che dici di notte e al buio.

—    Perché?

—    Perché si.

—    Che razza di risposta è perchéstì Spiega.

Non lo so come succede, ma avviene all’improvviso, senza che tu te ne accorga. Succede che a volte ti ritrovi a parlare di cose di cui non hai mai parlato con nessuno. Forse perché a volte è più facile. E nonostante la paura e quella punta di dolore, che è come un livido minuscolo ma profondo, a volte le parole escono cosi, senza che tu riesca a controllarle. Scivolano fuori, veloci, e non riesci più a fermarle.

-    Non è come pensi, - dico. - Non è bello quando tua madre non ti dice niente, come se tutto quello che fai non la riguardasse. E non perché se ne frega di te o perché è arrabbiata. Ma semplicemente perché non ce la fa, perché tutto quello che le gira attorno è diventato qualcos’altro. Un mondo che non le appartiene più, una realtà con la quale non riesce più a interagire. E anch’io faccio parte di questo mondo. Ed è difficile sapere di essere in quella parte di mondo in cui chi ti vuole bene non riesce più a entrare. E questa chiusura diventa come un circolo vizioso: la sua lontananza finisce per allontanare anche me.

Adesso che le parole sono uscite mi accorgo che il silenzio, attorno, nonostante i grilli e il crepitare della legna, si è fatto più pesante. Rimango immobile nella mia posizione sdraiata senza avere il coraggio di girarmi per guardare Becco e Lele. Nemmeno loro si muovono. Siamo come trattenuti, sospesi esattamente al centro, tra il canto dei grilli e il rumore del fuoco. E anche le cose attorno sono sospese, come se l’erba, gli alberi e l’aria stessero anche loro trattenendo il respiro. Bloccate, e in attesa di un qualsiasi movimento che rimetta in moto tutto.

Prima di scivolare addormentati, nel momento esatto in cui il silenzio della notte ti penetra cosi dentro che parlare significa bisbigliare, Lele ha chiamato Becco.

-Si?

—    Senti... volevo dirti che mi dispiace per oggi, per quella cosa che ho detto su quel vecchio... Insomma non è che lo pensassi...
-    Lo so.

-    Davvero?

-    Davvero. Lele?

-    Si?

-    Senti... Nemmeno io lo pensavo. Quelle cose sugli stupidi...
Be’, insomma... non erano riferite a te.

-    Davvero?

-    Davvero.

-    Becco?

-Si?

-    Niente... Buona notte allora...

-    Okay... Buona notte, Lele.

-Ale?

-Si?

-    Buona notte...

-    Notte...

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