CAPITOLO DICIOTTESIMO

Il giorno dopo, a svegliarci, è la voce di Lele che grida oh, mio Dio! Io e Becco schizziamo letteralmente in aria.

—    Che c’è?

Lele è seduto con le gambe incrociate sopra il suo sacco a pe-

lo    e, con un’espressione orripilata, si sta guardando la faccia in uno di quegli specchietti che tengono le donne nella borsa.

—    Sono un mostro! Guardate qua che faccia! E i capelli? Non posso andare in giro cosi!

—    Ma cosa sei, scemo? - dice Becco.

—    Sembro un pezzente!

—    Sei un pezzente a svegliarci cosi!

—    Devo assolutamente farmi un bagno, e poi...

Becco si copre il volto con le mani. - Non ci credo, non è possibile, non ci credo...

—    Ma vi rendete conto? Solo chi mi vede!

—    Oddio, ecco che ricomincia con le sue menate da fighetto...

—    Fighetto un cappero! Guarda qua che barba!

—    Non è possibile, non è possibile...

—    Ma quale barba? - dico.

—    Questa!

—    Quella non è barba. Sono quattro peli...

—    Quattro peli o non quattro peli voglio farmi un bagno! E subito!

—    Be’ allora suona il campanello e chiama il maggiordomo! Buona notte!
-    Buona notte un corno! Io voglio lavarmi!

-    Non è possibile, non è possibile...

Non è possibile ma quella era la realtà. L’unico modo per calmare la crisi isterica di Lele era assecondarlo. Cosi, mentre Becco continuava a ripetere non è possibile questo è deficiente, ci siamo alzati, abbiamo infilato il necessario nei nostri zaini e ci siamo incamminati verso il paese.

Il paese, forse perché è domenica mattina e c’è appena stata la messa, è più popolato del giorno prima. Mentre attraversiamo la piazza, e Lele tenta di coprirsi il volto perché c’è una ragazza che ci guarda e lui si vergogna, ci accorgiamo che non è solo lei a guardarci. Ho l’impressione che i vecchi del paese, ma non solo, smettano addirittura di parlare. D’impulso ci stringiamo l’uno contro l’altro. Quasi ci prendiamo sotto braccio.

-    Se ci guardano tutti, - dico a bassa voce, - forse Lele ha ragione e abbiamo un aspetto terribile...

-    Non è l’aspetto. È che siamo stranieri. E in un paese le facce straniere si riconoscono lontano un miglio, - dice Becco.

-    Ma quali stranieri, non siamo mica in Lapponia!

-    Magari se sorridiamo...

-    Ma fammi il piacere!

-    Ale, mi sta ancora guardando quella ragazza?

-No.

-    Oddio, allora sono proprio un mostro...

-    Ma piantala, una buona volta!

Non appena oltrepassiamo la soglia del bar il barista ci accoglie con un sorriso aperto e un ehi ragazzi come va, che ci mette di buonumore.

-    Vi vedo un po’ stravolti, che è successo?

-    Oddio, anche lui se n’è accorto!

-    Insomma ci dai un taglio! - dico strattonando Lele per un braccio. - Senta, - aggiungo subito dopo, - non è che ci fa usare

il    bagno, prima che a questo qua gli venga un’altra crisi isterica?
Il barista ci guarda un po’ perplesso.

—    È un ragazzo ricco, — dice Becco avvicinandosi al bancone.

—    E sa come sono i ricchi... ci tengono alla presenza.

—    Oh! Certo, certo, come no... prego, prego, fate pure. Intanto cosa vi preparo? Un cappuccino? Un caffettino? Un teino?

Nonostante le fìsse di Lele dobbiamo ammettere che, lavati, sbarbati e rinfrescati, stiamo molto meglio. Ringraziamo il barista per averci concesso l’uso del bagno del bar. Tempo totale: un’ora e mezza, cioè un’ora per Lele e mezz’ora tra me e Becco. Scambiamo con lui alcune chiacchiere mentre seduti al tavolino facciamo colazione e dopo che Lele ci ha fatto una testa cosi col fatto che in quel lavandino minuscolo mi sono dovuto lavare a pezzi, un piede poi l’altro poi il busto la faccia le parti intime eccetera eccetera. Insomma, uno strazio infinito.

Rilassati e rimpinzati, nel caldo di mezzogiorno che entra dalla porta aperta insieme a un quadrato di luce gialla stampato per terra, ci lasciamo cullare dalla voce del barista e dal silenzio insonnolito tipico dell’ora di pranzo. Il bar è deserto. Mi guardo attorno, le pareti giallastre ricoperte di gagliardetti di una squadra di calcio sconosciuta, foto di vecchie pubblicità della Coca Cola scolorite dal tempo e altre cose che tutte insieme sembrano davvero la scenografìa di un vecchio film degli anni Sessanta. Una vecchia macchina del caffè, le cannucce di plastica colorata della tenda raccolta a lato della porta e l’immenso specchio con su scritto Campari nella parete di fondo. Come se il tempo si fosse fermato.

Per la prima volta, in modo nitido e chiaro, come un lampo secco ma non troppo veloce, penso che mi piace stare qui, fra questa gente che ci guarda strano, in questo bar e in questo paese, dove il tempo è rallentato e anche il sole sembra più caldo. Un’altra dimensione, diversa e lontana. Il luogo ideale in cui andare a rifugiarsi. Diverso e lontano. Specialmente lontano.
A volte ho sognato di fuggire. Come fanno tutti. Di partire una mattina all’alba e di lasciare le cose. Andare e non tornare più. Fuggire, appunto. La vita normale, la casa, la scuola e mia madre. O forse, semplicemente, quel silenzio profondo dentro.

È quasi luna quando lo vediamo entrare. Becco, che sta parlando, si zittisce.

Cammina lentamente, appoggiato al suo bastone, un piccolo passo dopo l’altro, quasi strisciando i piedi. Solleva la sua mano ossuta verso il barista, in segno di saluto. Un arco lento e fragile. Ci passa di fianco e mentre ci supera piega leggermente la testa e sorride. Ma guarda Becco.

Si siede sulla stessa sedia del giorno prima. Allo stesso modo. La schiena dritta e il bastone ben piantato a terra. Come se fosse in attesa.

-    Andiamocene, - dice Lele alzandosi.

Becco sembra agitato. O imbarazzato. O confuso. Non fa nemmeno caso a quello che ha detto Lele.

-    Dài, Ale, andiamocene.

-    Okay. Forza Becco, alzati.

-    Non ho detto Becco, ho detto Ale.

E solo allora capisco. Dal suo sguardo e dal cenno della testa.

-    Lele, perché ce ne siamo andati?

-    Era il minimo dopo la stupidaggine che ho detto ieri.

-    Ma credi che parleranno?

-    Si, credo di si.

Fa venire voglia di stendersi sotto un albero e addormentarsi, questa luce calda e gialla. Il sole ci batte sulla schiena, mentre ci allontaniamo dal paese. Camminiamo come se stessimo andando a passeggio, io e Lele. Mani in tasca, andatura lenta e, a giudicare dal nostro silenzio, un sacco di pensieri nella testa.
-    Senti... - dice Lele ad un certo punto. Ha lo sguardo fìsso a terra e tira piccoli calci a un sassolino. - Ci ho pensato molto, -dice, - e ho capito perché vuoi andare da lei a Gallipoli.

Il cuore mi fa un piccolo balzo nel petto mentre dico: - Cosa?

-    Insomma, perché ti ostini tanto con lei. È per quello che hai detto ieri sera, vero? È per tua madre...

Mi lancia uno sguardo veloce, Lele. Troppo veloce perché non voglia dire niente.

-    No, non è come...

-    Saresti di nuovo solo, vero?

Questa volta si ferma, Lele. E mi guarda dritto negli occhi. Due fessure strette e scure.

-    Io non voglio lei perché mi sento solo.

-    Sei sicuro? — dice riprendendo a camminare. — Io credo di si. Non la vuoi perdere perché senza di lei ti senti solo.

Lo guardo allontanarsi, gli occhi puntati sulla sua nuca. Penso che invece abbia capito tutto, Lele.

-    Ci sono rimasto male, ieri sera, - dice fermandosi di nuovo. Si gira e mi guarda. Ce una punta di tristezza, adesso, nel suo sguardo. E anche nella forma delle sue labbra, che si piegano, amare, in un sorriso. - Voglio dire, non siamo poi tanto diversi, noi due.

-    Riguardo a cosa?

-    Alla solitudine, - dice Lele scrollando le spalle.

Per un attimo quella breve distanza che ci separa, pochi passi appena, diventa nulla aH’improwiso. Un filo di elastico tirato, che se ne lasci un lembo torna indietro, secco e veloce, sulle dita. Ma non è una distanza solo fìsica quell’elastico.

-    Perché?

-    Mmh, cosi...

Adesso, tutto sta andando più veloce. Troppo veloce. I pensieri e le parole si rincorrono fuori e dentro, e quando dico quella cosa non so nemmeno perché la dico e perché mi è venuta in mente. So solo che è vera.
-    È per questo che non hai telefonato a casa?

-    Forse.

-    Credevo andassi d’accordo con tuo padre.

-    È con mia mamma che non vado d’accordo. E cosi fredda, a volte.

-    Allora è vero che si stanno separando?

Lele si limita a fissarmi senza dire niente. C’è di nuovo tutto e niente in quello sguardo. Socchiude le labbra per dire qualcosa ma si blocca. Poi, mi gira le spalle e riprende a camminare. Un po’ curvo e a passi lenti.

Lo seguo a una certa distanza. Tutto, di nuovo, si addensa. La campagna, il caldo, il profumo degli alberi e i rumori. Anche i pensieri. Fisso il centro della sua schiena, tra le scapole, nel punto in cui la maglietta si tende. Ogni tanto devo socchiudere gli occhi per via della luce.

Lo seguo anche quando imbocca un sentiero che devia dalla strada principale. E tra gli alberi, e il sole che filtra attraverso i rami e le foglie si concentra in fasci di luce che si incrociano, netti, come lame.

Il rumore ci arriva all’improwiso. E il suono a volte metallico a volte simile a un fruscio che fa l’acqua quando scorre. È un fiume, un piccolo torrente di acqua bassa e trasparente. Un serpente liquido e sinuoso che scivola lentamente sui sassi bianchi e levigati, rotondi. Probabilmente d’inverno si ingrossa, perché dove siamo noi adesso, sulla riva, anche qui ci sono gli stessi sassi levigati e rotondi, anche se più scuri perché asciutti.

Io e Lele ci sediamo sotto la chioma di un grosso albero. Stiamo cosi in silenzio per un po’. Lele getta dentro l’acqua i sassi più piccoli, uno a uno, scegliendo quelli più piatti e leggeri. Stringe il gomito al busto e piega il polso in modo da imprimere al sasso una traiettoria particolare. A volte riesce a farli rimbalzare sul pelo dell’acqua un paio di volte.
-    È bello qui, — dice Lele sorridendo appena. - Non credevo che la natura potesse piacermi. È praticamente la prima volta.

-    Davvero?

-    Si. Insomma, d’inverno vado in montagna, però ci vado solo per sciare. Non ho mai visto niente di più che campi da sci.

Guardo il sasso che ha lanciato in acqua. Un blup rotondo e sordo.

-    Invece da piccolo mio padre mi portava sempre a pescare. Il sabato pomeriggio. Una volta gli hanno anche fatto una multa perché non si poteva.

-    E ti piaceva?

-    Si, era divertente...

Altro silenzio. Altri sassi e uno sguardo di Lele. Le sopracciglia arcuate verso il basso, forse tristezza. O malinconia.

L’ultimo sasso che tira rimbalza tre volte e poi scompare inghiottito nell’acqua. Ci sdraiamo a terra quasi contemporaneamente. Le dita intrecciate dietro la nuca e le ginocchia piegate. Il rumore dell’acqua è un gorgoglio ovattato.

-Ale?

-Si?

-    Perché si decide di voler bene a una persona?

-    Non si decide. Succede, succede e basta.

-    Io credo di averlo deciso. Un giorno ho deciso di volere bene a mio padre e di non volerne a mia madre.

Giro la testa e lo guardo. Ha gli occhi chiusi, Lele. E nonostante il tono che ha usato, la sua espressione è seria.

-    Devo averlo deciso per forza, perché non credo che loro abbiano mai fatto molto per dimostrarmi il loro bene. Un padre notaio e una madre avvocato non hanno molto tempo per i figli. Insomma, la maggior parte della loro vita la passano in ufficio e a quelle stupide cene tra colleghi. Da che mi ricordo mia madre ha sempre avuto il nervoso per qualcosa, un cliente, i ragazzi che andavano da lei a fare tirocinio eccetera. Non aveva mai tempo per ascoltarmi. Invece mio padre a volte mi portava al cinema, alle giostre, e adesso che sono cresciuto è l’unico con il quale parlo. Niente di particolare ma almeno mi sta a sentire.

Parla lentamente, Lele, senza particolare trasporto, con distacco. Il suo è solo un resoconto di fatti.

-    Forse è perché mi portava al cinema da piccolo e rideva alle mie battute il motivo per cui ho deciso che gli volevo bene. O forse perché con me non si è mai arrabbiato più di tanto, non so.

-    Lele?

-Si?

-    A me sembra molto triste...

-    Anche a me. Però è la verità. Ed è la verità anche il fatto che mi pagano tutto quello che voglio perché cosi è più facile.

-    Lele...

-    Tutto quello che non possono darti te lo comprano. È cosi che funziona.

-    Lele... È vero che si stanno separando?

-Si.

Per un attimo tutto diventa rumore di acqua e fruscio di foglie.

Mentre guardo Lele mi chiedo quanto gli sia costato ammettere questa cosa.

-    Se non vanno d’accordo è giusto che...

-    Questo lo so però...

-    Puoi sempre scegliere di andare a vivere con tuo padre.

-    Si, è quello che farò. L’idea di stare solo con mia madre mi fa rabbrividire.

-    E allora, qual è il problema?

Piega la testa verso di me e mi guarda. Non so cos’è quello che vedo. Forse incertezza e confusione.

-    Forse perché i genitori li si vede sempre come entità astratte. Non sono persone, non sono individui, non sono due cose separate, sono genitori. È una cosa che hai dentro, ti ci abituano quando nasci, è un punto fermo. E per quanto sia non vorresti mai vederlo crollare, questo punto fermo. È difficile separare una cosa che dentro di te è intera.

Ci sono altre domande che vorrei fare, altre cose che vorrei sapere. Invece tutto quello che faccio è annuire alle parole di Lele.

Penso alla sua solitudine e che è vero che non siamo poi tanto diversi, io e lui. E forse anche Becco, che cerca nelle parole e nei libri quello che non trova fuori. È questo il filo che ci lega? È questo il motivo per cui siamo amici?

Stanno succedendo strane cose durante questo viaggio.

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