CAPITOLO QUATTORDICESIMO

Lele ha inclinato indietro lo schienale del sedile e si è lasciato andare. Le gambe leggermente divaricate e le braccia conserte che si sono slacciate quasi subito, non appena si è addormentato. La testa è piegata sulla spalla, verso di me.

Becco, dietro, legge il giornale. E seduto con le gambe allungate sul sedile, le spalle contro l’angolo tra lo schienale e la portiera.

Io, una mano sul volante e l’altra sul cambio, mi lascio guidare dalla strada.

La radio è una musica indistinta di sottofondo che si confonde con lo strisciare del vento attraverso i finestrini.

Di nuovo, c’è qualcosa di diverso in questa mattina. Il paesaggio attorno è cambiato aU’improvviso, è cambiato come se il cartello che segna l’entrata nelle Marche non fosse solo un semplice cartello. Ma un richiamo. O una sottolineatura. Guardatevi attorno! Vedete? Questo è un altro luogo. Ma non è solo qualcosa che riguarda il paesaggio. Non è solo qualcosa di oggettivo. Le cose cambiano secondo il modo in cui si guardano, secondo lo stato d’animo. E forse questa sensazione di diverso non è fuori, nella forma del paesaggio, nell’inclinazione dei prati, nella sagoma degli alberi e nel colore del verde e della terra, forse non è fuori, ma è dentro di me. Forse sono bastate le poche parole di ieri sera con Becco e quelle di stamattina con Lele per cambiare qualcosa. Per cambiare il modo di assorbire le cose. Conoscere è metterci qualcosa di tuo. E la differenza tra ciò che è estraneo, e ciò che non lo è, è proprio questa cosa tua che ci metti. È una cosa che dai in cambio, una sorta di tacito patto. E conoscere il segreto di Becco e il timore di Lele di essere considerato uno stupido, li ha resi diversi da quello che credevo, li ha avvicinati a me, li ha resi più intimi. Forse è per questa nuova sensazione di complicità che le cose, attorno, mi sembrano diverse. Forse più belle, o forse, semplicemente, più complete.

L’autostrada stretta in due corsie è una lingua mobile di curve. Un nastro grigio che taglia i prati attorno. Collinari e scuri.

Il sole alto nel cielo di metà mattina brucia l’aria, batte contro il finestrino dalla mia parte e mi scalda il braccio.

Guido veloce, ma a volte rallento. Il traffico è un cordone discontinuo che si sfilaccia e si riaddensa a un ritmo quasi regolare. In questo brusio di vento, automobili e musica, il silenzio avvolge il paesaggio in un velo ipnotico.

È facile pensare in un’atmosfera compatta come questa. Gli occhi puntati in avanti, esattamente al centro della corsia, sull’asfalto grigio, o contro il posteriore di quella macchina lontana. Sono quasi tre ore che guido. Sono quasi tre ore che Lele dorme e che Becco legge. Sono quasi tre ore di silenzio.

Il senso del silenzio è la cosa che ricordo meglio. È la cosa che mi definisce più di tutto. È un bambino silenzioso, diceva la maestra a mia madre. È diventato cosi silenzioso... Il silenzio, da piccolo, riuscivo a immaginarmelo. Era una presenza ingombrante, solida. Un uomo grasso e lento. Una faccia rotonda e buona, due occhi e una bocca che non sorridevano mai, un’espressione indefinita, sospesa. Questo uomo grasso che si muoveva lento era silenzioso. Il Signor Silenzio. Enorme, ingombrante, che arrivava leggero, alle spalle, con piccoli passi fluttuanti. Se ero seduto si sedeva, se stavo in piedi si fermava anche lui. E mi guardava. Altre volte questo Signor Silenzio fuoriu sciva da me. Una nuvola di vapore, come il Genio della lampada di Aladino. Un lungo risucchio verso l’esterno. Allora aleggiava sopra la mia testa come una nuvola carica senza peso, o come un pallone grande e grigio. Non faceva mai paura, il Signor Silenzio. Era una parte di me, ero io. Che mi guardavo. Il mio silenzio che mi guardava, che mi circondava.

Arrivava sempre all’improvviso. A metà di un pensiero, a metà di una interrogazione, a metà di un discorso. Arrivava e mi assorbiva. Mi isolava. Quando ho smesso di immaginarlo, di vederlo, ho capito che ero cresciuto. Allora non lo vedevo più. Sentivo la sua presenza. Un fluido denso tutt’intorno, elastico e morbido. Vivo e solo.

La prima volta che è arrivato è stato dopo la morte di papà. A otto anni, dopo il suo funerale. E arrivato dietro le spalle di mia madre e l’ha inglobata. Da allora il Signor Silenzio è sempre stato una presenza continua, un essere ben definito che abitava in casa nostra, al posto di mio padre. Una terza presenza situata esattamente tra me e il resto del mondo. Uno scudo dietro cui proteggersi, un magma dentro cui annullarsi. Quando il silenzio prendeva mia madre, però, faceva male. Era come stare di fronte a uno specchio ed essere guardati da un’immagine sconosciuta. In casa mia non c’era mai stato cosi tanto silenzio come dopo la morte di papà. Era come muoversi dentro l’acqua, centinaia di metri in profondità. Il silenzio aveva preso dimora e ci esimeva dall’obbligo di parlare.

Quando sono cresciuto e ho smesso di vederlo ho capito che quel silenzio, in realtà, ce l’avevo dentro. Una forma di solitudine che gonfiava l’anima e aumentava la distanza fra me e gli altri. Un involucro di gomma che mi isolava e mi proteggeva, ma anche una sorta di terzo occhio con cui guardare gli altri. Una lente di ingrandimento che smaschera i particolari, che focalizza e riconosce. E oggi, mentre guido sprofondato in questo silenzio appena scalfito dal ronzio della radio e del vento capisco cos’è che unisce me, Becco e Lele. Un senso di solitudine. Un silenzio profondo dentro, che isola, che allontana e che riconosce altri silenzi. Un recipiente che non può essere colmato perché il problema non è far tacere il silenzio. Il problema è ascoltarlo. Forse, crescendo impareremo ad ascoltarlo cosi bene che non lo sentiremo più. Forse è questo che significa diventare adulti: sapere ascoltare il proprio silenzio fino a non sentirlo più. Dominarlo e rinchiuderlo. Seppellirlo in fondo. O forse ci sono persone che questo silenzio dentro non ce l’hanno. Non ce l’hanno mai avuto. E io non so davvero cosa sia meglio.

Quando c’era lei quel silenzio era diventato una membrana sottile. Lei era una musica rumorosa e stonata che riempiva lo spazio. F questa musica a tutto volume che sto rincorrendo. La stessa musica che rincorre Lele nel suo godersi la vita e la stessa di Becco quando scrive.

Abbiamo superato l’uscita per Pescara-Chieti da pochi chilometri quando Becco richiude il giornale in fretta, un fruscio rapido e rumoroso che fa vibrare l’atmosfera immobile e mi strappa dai miei pensieri. Lo guardo attraverso lo specchietto. Ha gettato il giornale in un angolo del sedile e dai movimenti che fa intuisco che sta cercando qualcosa. Si china in avanti, nello spazio tra i sedili e poi si rialza, apre lo zaino e ci fruga dentro, tira fuori il contenuto, si ferma, si passa una mano sulla testa e torna a guardarsi attorno. Con piccoli movimenti veloci e secchi.

-    Che c’è? - chiedo.

-    Dobbiamo tornare indietro, - dice.

-    Cosa?

-    Dobbiamo tornare indietro!

In quell’istante Lele si sveglia. Sbatte le palpebre, sbadiglia e chiede che succede?

-    Non lo so...
Becco si aggrappa con una mano al mio sedile. Non l’ho mai visto cosi agitato e nervoso.
-    Ho dimenticato Borges alla toilette dell autogrill, - dice.

-    Cosa? - Lele ha sgranato gli occhi, ormai completamente sveglio, e lo guarda con quel mezzo sorriso che lo so sta per ridergli in faccia. - Hai dimenticato Borges nel cesso dell’auto-grill? Non ci posso credere... - e ride.

-    Devo averlo appoggiato sul piano del lavandino...

-    Guarda che non ce l’avevi. Io non te l’ho visto... — dico.

-    Si che ce l’avevo. E l’ho dimenticato proprio sul lavandino... Ale, devi assolutamente tornare indietro.

-    Tu sei scemo! E poi guarda il lato positivo... - dice Lele. Tira su lo schienale del sedile, abbassa il parasole e guardandosi nello specchietto si sistema un ciuffo di capelli. Dopo questa pausa ad effetto lunga un chilometro, chiedo: - Allora?

-    Almeno cosi la smette di leggerci quelle sue dannate poesie...

Mentre penso Oddio, ecco che ci risiamo, Becco afferra Lele per la polo con entrambe le mani e lo scuote. - Sei uno stronzo! Ecco cosa sei! Tu pensi solo a te stesso...

-    Ehi, mollami... — Lele si volta indietro. E quasi in ginocchio sul sedile e sta lottando contro Becco.

-    È da ieri, da quando siamo partiti che ci fai due orecchie cosi con le tue poesie...

-    Volete stare fermi? Sto guidando, io!

-    Tu non capisci un accidente. Sei e rimarrai sempre un pezzo di ignorante...

-    Meglio ignorante che rincoglionito di poesie... E poi quelle di Borges sono anche brutte...

-    Cosa hai detto? Non ti permetto...

Sono nel pieno della lotta quando mi arriva una gomitata che per poco non ci sbatte contro il guard-rail di sinistra. Appena la macchina comincia a ondeggiare Lele e Becco si fermano, impauriti. Istintivamente tolgo il piede dal gas e mentre cerco di recuperare il controllo a forza di frenate, sterzate e controsterzate, mi accorgo che dietro di noi sta arrivando un gruppo di Harleyisti. La paura si manifesta sotto forma di una vampata di calore che mi parte dallo stomaco e mi arriva alle tempie.

-    Sterza! Sterza! - dice Lele.

-    Frena! Frena! - dice Becco.

Mentre la macchina va di qua e di là, gli Harleyisti, che sono sei, inchiodano, sbandano un po’ sulle gomme, e poi con una zigzagata magistrale ci superano, tre a destra e tre a sinistra. Gli insulti che ci mandano riusciamo a sentirli perfettamente. E anche le loro facce, nonostante casco cromato e occhialoni, riusciamo a vederle perfettamente. Grosse, barbute, e cattive. Della scritta sui giubbotti, invece, riesco a leggere solo una parola: Devii.

Quando finalmente riesco a recuperare il controllo della macchina, metto fuori la freccia e mi fermo nella corsia di emergenza. Sono in un bagno di sudore anche se l’ultimo brivido che mi scuote è più ghiacciato di una granita nel frizer. È la seconda volta in due giorni che rischiamo di lasciarci la pelle e inoltre stanno arrivando un sacco di auto. Se fosse successo qualche secondo dopo...

Lele e Becco si sono ammutoliti di colpo. Mi giro e li guardo. Le loro facce bianche e slavate sicuramente sono lo specchio della mia.

-    Ma cosa siete, deficienti? - urlo. - Cosa vi salta in mente di mettervi a fare a botte mentre guido...

-    Non stavamo facendo a botte... - dice Lele. Anche se più che parlare ansima.

-    Li avete visti che facce avevano? — dice Becco. Se ne sta appiattito contro il sedile come una salvietta usata. - Ci mancava la scritta wanted...

-    Dài, riparti, - dice Lele. - Metti che quelli tornino indietro...

-    See, tornano indietro... Mica si può tornare indietro sul-l’autostra...

Il fatto che Becco si sia interrotto a metà della frase a me e a Lele non piace affatto. Siamo ancora girati verso di lui. I suoi occhi troppo spalancati, le sue labbra socchiuse e un po’ tremolanti e quel dito che indica dritto di fronte a sé completano il quadro delle cose che non ci piacciono affatto. Io e Lele deglutiamo nello stesso istante. E mentre deglutiamo, ci voltiamo in avanti sempre nello stesso istante e molto, molto lentamente. La scena è quella di un film che mi sembra di avere già visto, con l’unica differenza che io il ciak del regista non l’ho sentito.

Fiction: strada infinita che taglia il deserto del Nevada. Sole rovente che spacca la terra e fa tremolare l’aria in lontananza. Harleyisti in formazione a V che avanzano al ralenti.

Realtà oggettiva: Autostrada Adriatica. Pochi chilometri prima dell’uscita per Villafranca. Gli Harleyisti, veloci e diligentemente incolonnati stanno avanzando verso di noi sulla corsia di emergenza.

Fiction: gli Harleyisti sono vagabondi attaccabrighe.

Realtà auspicabile: gli Harleyisti sono padri di famiglia e adesso vengono a verificare se stiamo bene.

Fiction: gli Harleyisti sono fondamentalmente dei bonaccioni con i quali alla fine si fa amicizia.

Realtà plausibile: gli Harleyisti sono incazzati perché per poco non li mandavamo al creatore e adesso ci sbriciolano come biscottini.

Fiction: adesso il regista dice buona la prima e si va tutti in pausa.

Realtà inconfutabile: questo non è un film e adesso ci massacrano davvero.

E tutto quello che penso mentre i motociclisti avanzano verso di noi. E tutto quello che riesco a pensare durante questi attimi eterni è la prova schiacciante che il tempo è una dimensione soggettiva e relativa che si dilata e si contrae. E il tempo non si è mai contratto cosi in fretta come adesso, visto che passano esattamente tre secondi netti dal momento in cui Lele mi scuote per le spalle e mi grida muoviti! fino al momento in cui ingrano la prima e riparto.
Per un attimo, mentre li superiamo, il rombo del motore copre il rumore assordante delle loro moto. Non so perché, ma non appena li vedo fare inversione di marcia, mi dico che me lo aspettavo.

—    Guardate che ci stanno inseguendo! - dice Becco. È in ginocchio sul sedile e, come i bambini, tiene le mani appoggiate contro il lunotto, le dita bene aperte e schiacciate contro il vetro.

—    Non è possibile! — dico. — Questo è un film, siamo inseguiti da un gruppo di motociclisti, non è possibile...

—    Piantala di frignare e schiaccia quel pedale! - urla Lele. — E stai attento a quella macchina... La macchinaaa!

Scanso una Peugeot 205 in prima corsia e poi una Volvo 760 in seconda, e poi di nuovo in prima di fianco a una Clio e poi ancora in seconda davanti a una Audi 80 che frena e mi lampeggia, ma i motociclisti sono più veloci e riescono a sorpassare, affiancare e zigzagare molto più agilmente di noi.

—    Questi non ci mollano! Questi non ci mollano! - dice Becco. E il tono di voce più che impaurito o preoccupato, mi sembra incazzato. — Io lo sapevo che non dovevo venire. Lo sapevo che dovevo stare a casa a dipingere e a scrivere. Lo sapevo che non dovevo darvi retta a voi due...

—    La vuoi piantare! Magari si stufano e ci lasciano perdere... — urla Lele.

—    Non si stufano affatto! Non si stufano! Ale, santo Iddio, accelera!

Mentre schiaccio l’acceleratore con tutta la pianta del piede e il tachimetro passa in niente secondi da centoventi a centosessanta e la macchina sguscia con un rumore graffìante e rotondo da ripresa, dico: — Se vado un po’ più forte torniamo indietro nel tempo...

—    Ti sembra il momento di fare battute? - dice Lele mentre si gira indietro per controllare la strada. - Comunque li stiamo seminando...
-    Li stiamo seminando? Mi sa che hai visto un po’ troppi film americani...

-    E anche di quelli scadenti, — dice Becco. — Ci stanno attaccati come francobolli su una busta.

Lancio un’occhiata allo specchietto retrovisore. Il gruppo di macchine che avevamo superato prima è rimasto indietro. E gli Harleyisti, che adesso sono davvero in formazione a V, stanno paurosamente accorciando la distanza tra noi e loro. Schiaccio ancora l’acceleratore e la freccia del tachimetro sale a centottan-ta. Mi sembra che questo inseguimento duri da una vita e in un attimo di sconforto mi dico che questi non ci mollano finché non ci hanno raggiunti. Magari in un autogrill che per l’occasione si trasforma in uno di quei ristoranti fatiscenti che si trovano in mezzo al deserto americano, pieno di camionisti e altri motociclisti duri, cattivi e con una propensione genetica a fare casino. Ai miei pensieri catastrofici mi strappa Lele che dice una cosa che non capisco.

-    Cosa?

-    Ho detto usciamo dall’autostrada. C’è l’uscita per Pescara-Villafranca, adesso.

-    Si ma se usciamo capiscono che abbiamo paura.

-    Ah si? — Mi guarda spazientito, Lele. Ho poco tempo per decidere e non sono nemmeno tanto convinto che sia una buona idea, ma quando Becco urla oh mamma sono sempre più vicini, metto la freccia e imbocco lo svincolo.

Gli Harleyisti rallentano indecisi, ma nello stesso istante in cui Lele dice okay ce l’abbiamo fatta, Becco, senza rendersi conto delle conseguenze, con un gesto ampio delle braccia, compiuto, eloquente e ben visibile agli inseguitori grida to’ brutti stronzi vi abbiamo fregato. E questo li fa incazzare e tutto ricomincia.

Quello che succede dopo è una sequenza assurda di scene e un incrocio delirante di insulti. Mentre i motociclisti ci inseguono lungo la rampa di svincolo e Lele e Becco ricominciano a litigare e a fare a botte io prego che al casello non ci sia la fila. E mi viene quasi da piangere quando vedo che le mie preghiere sono state esaudite, cosi con una manovra magistrale tiro fuori cento carte dal portafoglio, afferro il biglietto dell’autostrada incastrato dentro la linguetta del parasole, e mentre con un’occhiata mi accorgo che gli Harleyisti sono rimasti imbottigliati dietro un provvidenziale flusso di auto sbucate da chissà dove, mollo biglietto e soldi al casellante e senza aspettare il resto riparto sgommando.

Ormai completamente calato nella parte del fuggiasco è sufficiente la convinzione che i motociclisti ci stiano ancora inseguendo a spingermi a guidare a tutta velocità e alla cieca. Lele e Becco sembrano essersi calmati. O forse si calmano perché si rendono conto che gli Harleyisti non ci inseguono più e che, quindi, non c’è più alcun motivo di correre.

-    Ehi, ti vuoi fermare! — dice Lele ad un certo punto.

-    Non mi fido.

-    Come non ti fidi? Non ci sono più...

-    Non mi fido.

-    Lele ha ragione, non ci sono...

-    Tu sta’ zitto! È tutta colpa tua se...

-    Ma sta’ zitto, tu! Sei stato tu a cominciare...

-    Cosa hai detto? Io ti rompo la faccia!

-    Ah, si? E allora fatti avanti...

E l’eventualità di un ennesimo e insopportabile episodio di litigio tra Lele e Becco a spingermi a gridare basta! e a rallentare. E non appena mi fermo sul ciglio della strada un silenzio teso e stupito ci copre come una cappa.

Ci guardiamo attorno. Siamo su una strada regionale che costeggia un fiume e taglia il paesaggio collinare perpendicolarmente all’autostrada alle nostre spalle. Improvvisamente mi sento stanchissimo. Beviamo a turno dalla bottiglia comprata in autogrill e forse ci calmiamo.
-    Che si fa? — chiedo.

-    Come che si fa? Riprendiamo l’autostrada... - dice Lele.

-    E se quelli sono usciti e ci aspettano dall’altra parte? - dice Becco.

-    Ma andiamo! Questa è fantascienza!

In realtà questa era una cosa che non avremmo mai saputo:
1) perché, unici nella storia del viaggio, ci perdiamo a pochi chilometri dall’entrata in autostrada,
2) perché sbagliamo strada e ci ritroviamo nei pressi di un paesino immerso nel niente,
3) perché si rompe la catena della distribuzione e rimaniamo inchiodati tre giorni nel suddetto paesino immerso nel niente.



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