CAPITOLO QUINTO

—    Autogrill? — chiede Lele.

—    Autogrill, — dice Becco.

—    Ma se siamo partiti da neanche due ore...

—    Ma io ho sete...

In genere li adoro gli autogrill. Ma questa volta non so. Sono sensazioni. Pensieri sfumati. Ho fretta di arrivare in Puglia e di fermarmi adesso non mi va. Poi qualcosa comincia a vorticarmi nella testa, una spirale veloce, che confonde. E mentre entriamo nell’area di parcheggio la spirale si ferma e le sensazioni si dilatano in ricordi e i ricordi si asciugano in sensazioni.

Sono come zone di confine, gli autogrill. Oasi in mezzo al niente. Tasselli colorati di un mosaico. Coriandoli sperduti tra il grigio dell’asfalto e il verde degli alberi. Isole dal tempo rallentato al di qua del guardrail.

Quand’ero piccolo non vedevo l’ora che papà dicesse la parola magica. Autogrill. E io, seduto dietro, incollavo la fronte al finestrino e cercavo di catturare con gli occhi i cartelli che indicavano quanti chilometri mancavano. Ma i cartelli erano più veloci dei miei occhi e io dovevo girare la testa all’indietro.

Più il numero è grande più è lontano, diceva la mamma. Ma non mi aveva spiegato che quando c’era scritto 1000 non voleva dire che mancavano mille chilometri. E allora io mi rattristavo, perché mille chilometri erano come la distanza dalla terra alla luna. Una volta glielo avevo chiesto se un uno con tre zeri volea dire che mancavano mille chilometri. Loro avevano riso e mi .ivcvano risposto di si. Però, esiste una magia, aveva detto papà. Se i In udì gli occhi e pensi forte forte la distanza si accorcia. E allora .( t ingevo gli occhi, mi concentravo e facevo la magia. E la ma-i-,ia funzionava, perché dopo pochi minuti sentivo il tic tic della freccia e l’automobile che rallentava. Allora aprivo gli occhi e l .iutogrill era li. A volte grande, come questo, a volte solo un semplice bar con toilette a fianco. Ma era li. E se era notte era illuminato come un’astronave, un organismo gonfio di luci e di movimento, di persone e di voci, frammenti di discorsi che si sovrapponevano e si confondevano in un unico brusio, sommesso e pulsante come un respiro profondo.

Mi piacevano gli autogrill. Gli scaffali con i giochi e le caramelle, la cioccolata e i lecca-lecca grandi dalle strane forme. Il suono continuo della cassa e la fila di gente, tutta diversa. Il camionista stanco e in canottiera e la signora col tailleur, fianco a fianco al bancone del bar con lo stesso cappuccino fra le mani.

Mi viene in mente questo mentre Lele parcheggia. E poi, mentre guardo verso l’entrata, un altro ricordo, quello che se era estate succedeva che c’erano un sacco di ragazzi con gli zaini e le auto scassate. Mangiavano i panini seduti sul marciapiede appena fuori, o sulle scale, tutti insieme, e ridevano cosi forte che mettevano allegria e allora io pensavo che quando sarei stato grande avrei viaggiato anch’io in autostrada e anch’io mi sarei fermato come loro negli autogrill, a mangiare i panini e a bere la coca direttamente dalla lattina. Avrei viaggiato anch’io come loro e senza meta, perché loro, ero certo, andavano ovunque e da nessuna parte. E quella cosa, di stare insieme e di andare per poi fermarsi, mi sembrava davvero la cosa più bella del mondo.

Mi vengono in mente tutte queste cose. Scendiamo dalla macchina e io sorrido. È una strana euforia, impalpabile, indefinita, ma mi sale attraverso la pelle e penetra fuori, liquida e densa. È come se la vedessi. Un’onda calda e silenziosa che arriva fino a Becco e a Lele e li sommerge.

Lo so che l’hanno sentita.

Lo so. Perché si fermano, mi guardano, e per un attimo, un attimo soltanto, anche loro mi sorridono.

Compriamo tre lattine di coca e un pacchetto di sigarette anche se nessuno dei tre fuma. Giriamo per gli scaffali e Lele si prova tutta una serie di cappellini e cravatte dai colori terribili, seguiamo un gruppetto di ragazze fino alla toilette e poi scappiamo quando queste ci guardano storto. Lo giriamo in lungo e in largo, l’autogrill, e quando vediamo qualcosa di interessante ci chiamiamo ad alta voce da un settore all’altro. Sghignazziamo come stupidi facendo un gran casino finché la cassiera, un vecchio topo grasso con occhiali da clown, alza gli occhi e con una voce dura e fredda come una tavola di marmo ci dice: zovanotti non siamo mica alla fiera, qui! Allora usciamo e ci sediamo sul marciapiede. Guardiamo le macchine che entrano ed escono dall’area e spariamo cazzate.

Come ragazzini in gita scolastica.

-    Merda! Sono le due e siamo ancora a Forlf, - dico mentre risaliamo in macchina.

—    Giuro che adesso facciamo tutta una tirata fino a Gallipoli, - dice Lele. - Massimo un’altra fermata. Ma solo per pisciare Lo dice in uno strano modo, però. Inforca gli occhiali da sole e mi sorride, un sorriso storto e buffo. Come se non credesse affatto alle sue parole.

A volte penso che Lele sapesse fin dall’inizio la natura di quel viaggio. Come un demiurgo.

Che crea realtà e fa succedere le cose.

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