CAPITOLO SEDICESIMO

Quello che successe da quel momento in poi, dall’istante in cui tornammo alla macchina fino a quando giungemmo a Galli-poli, fu l’anello di congiunzione tra il qualcosa che c era prima e quello che ci sarebbe stato poi. Un passaggio lento e a volte accelerato, un cambiamento senza contorni, ma denso e irripetibile. Come certe cose che ti capitano da ragazzo che succedono una volta e non vanno più via.

Il primo paese che incontriamo è a circa un paio di chilometri dal punto in cui abbiamo lasciato la macchina. Quando siamo tornati indietro, Lele ha voluto guardare il danno un’ultima volta. Era cosi abbattuto e preoccupato che mi sono sentito in colpa. Mio padre mi ucciderà, ha detto. E se non lo farà lui, morirò di paura nel momento in cui glielo dico.

-    E noi non glielo diciamo, - dice Becco.

-    E metti che non troviamo nessuno? Metti che ci voglia un

sacco di tempo?

Ma Becco gli ha appoggiato una mano sulla spalla e gli ha

detto: — Vedrai che si sistema tutto.

Abbiamo raccolto le nostre cose dal baule e ci siamo allontanati.

Il paese sono quattro case gettate come mattoncini giocattolo attorno a un quadrato che 1 urbanistica definisce piazza. Ci sono una chiesa, un bar, qualche negozio sprangato e, unico segno di vita, un cane rosso che gironzola su e giù e che non ci degna di uno sguardo.

-    Ce già stato il Giudizio Universale e noi non ce ne siamo accorti? - dice Becco passandosi una mano sulla fronte umida di sudore.

-    Io non so voi, ma a me sta venendo da piangere, - dice Lele.

-    È mezzogiorno, - dico. - Magari la gente è a tavola...

-    Quale gente? - chiede Lele.

-    Sentite, là c’è un bar. Chiediamo al barista se da queste parti ce un meccanico...

-    Ale, non c’è niente da queste parti, e la mia macchina, anzi la macchina di mio papà, è là abbandonata in una stradina sperduta e se succede qualcosa... Oddio, mio padre mi uccide, anzi no, mi disereda, il che è peggio.

-    La pianti di frignare?

-    Il piagnisteo, — dice Becco guardandosi attorno in modo indifferente, - fa parte del bagaglio innato dei ragazzi ricchi.

Lele mi guarda. — Ma che cavolo sta dicendo?

-    Boh...

-    E comunque non sappiamo nemmeno dove passare la notte.

-    Abbiamo i nostri sacchi a pelo, — dice Becco.

-    Io non ci voglio dormire in un sacco...

-    E allora per che cacchio te lo sei portato!

Lele apre la bocca ma questa volta non glielo do il tempo di ribattere. — Adesso andiamo nel bar e chiediamo se c’è un meccanico. E piantatela! Mi sembra di essere all’asilo...

Il barista, un uomo alto e grosso dalla faccia quadrata e molle, ci guarda come fossimo tre fantasmi. Dopo l’attimo di sorpresa iniziale prende a fissarci stringendo gli occhi in uno sguardo acuto come se ci volesse inchiodare alla parete. Il bar ha tavolini e sedie in formica e pareti gialle di nicotina. Uno di quei bar che ti aspetti in un film degli anni Sessanta.
Sono io ad avvicinarmi al bancone e a chiedere di un meccanico. Lele è troppo sconvolto e Becco, non so perché, non riesce a staccare gli occhi da un vecchio seduto in fondo al locale con le spalle contro la parete.

Il barista, le braccia incrociate sul suo pancione enorme, mi guarda serio mentre gli racconto del nostro incidente. Alla fine, dopo una pausa eterna, prorompe in una risata divertita che gli ridisegna le fattezze del volto. Per un attimo mi sembra addirittura simpatico.

—    Brutto guaio ragazzi, — dice, — davvero un brutto guaio. Hai sentito Aristide?

Il vecchio seduto in fondo al bar, che fino a quel momento aveva ricambiato lo sguardo di Becco, concentra i suoi occhi acquosi sul barista. Se ne sta seduto con la schiena dritta, le ginocchia aperte e le mani appoggiate una sopra l’altra sul pomello del bastone che tiene ben piantato a terra davanti a sé. C’è una certa dignità in quella posa, come nel volto immobile e fìtto di rughe. Il vecchio, nell’udire il proprio nome ha girato la testa, lentamente, come se si fosse appena svegliato da un lungo sonno. Ha guardato il barista, poi è tornato con gli occhi fìssi su Becco.

—    Aristide è il più vecchio del paese. Passa qui la maggior parte delle sue giornate. Fa un po’ pena. Se ne sta sempre cosi, ma anche se non parla quasi mai, mi fa compagnia. Vero Aristide? - dice il barista alzando il tono della voce. Ma Aristide questa volta non si gira.

—    Senta, - interviene Lele per tagliare corto, — c’è o no un meccanico?

—    Certo che ce l’abbiamo. Vi prendo il numero di telefono. E se mai vi spiego anche dove abita...

Ordiniamo qualcosa da bere e mentre il barista mi spiega come raggiungere la casa del meccanico, Lele prova a telefonargli.

—    Okay, fatto, - dice Lele dopo aver agganciato la cornetta.

—    È disposto a trainarci la macchina fino all’officina. Dobbiamo solo andare a casa sua.
Ringraziamo il barista e siamo quasi sulla porta quando dal fondo ci giunge la voce del vecchio.

—    Ehi, ragazzo!

Ci giriamo. Il vecchio solleva un indice ossuto e indica Becco. Gli trema un po’ il dito, come anche il sorriso appena accennato e la voce, rauca e sottile, quando dice: — Ehi, ragazzo, lo sai che assomigli a Rimbaud?

—    Questo è un paese di suonati, - dice Lele mentre ci incamminiamo lungo la strada che ci è stata indicata. - Passi per il barista, che probabilmente noi siamo le uniche facce nuove che vedrà. per il resto della vita, ma quel vecchio rimbambito... Co-s’è che ti ha...

Lele si blocca perché Becco si è fermato. Lo sguardo di Becco è fermo. Tutto nel suo volto è fermo. Anche le labbra. Una linea tesa e dura.

-    Che c’è? - chiede Lele. È a disagio. Il modo in cui Becco lo guarda non è il solito modo.

-    Quel vecchio non è un rimbambito! Se ha letto Rimbaud conosce un sacco di altre cose. E una persona che conosce un sacco di cose non è rimbambita, anche se passa le sue giornate seduta da sola in un bar.

—    Scusa... Non credevo che ti stesse cosi a cuore...

-    Non è quel vecchio ad essere rimbambito. E la gente come te, quella che non vede oltre il proprio naso, ad essere rimbambita. Quella che non vuole ascoltare perché non ha niente da dire. Sono solo questi i rimbambiti, gli stupidi. Che ridono di cose che non sanno senza sapere che stanno ridendo della propria stupidità.

Dopo quella presa di posizione tra di noi, per alcune ore, cala il ghiaccio.

Camminiamo in silenzio fino alla casa del meccanico. Io e Lele, e Becco qualche passo più indietro.
L’incontro con quel vecchio lo aveva colpito. E le cose che aveva da raccontare, Becco, se le fece raccontare tutte.

Il meccanico è un ometto sui sessantanni, tarchiato, dagli occhi vispi e dai movimenti veloci. Nonostante l’età, i pochi capelli che ha sono neri, come le sue mani sporche di olio e di morchia.

Gli basta uno sguardo rapido al motore per valutare l’entità del danno.

-    Tre notizie, - dice. - Una buona, una cattiva e una cosi cosi'. Quale volete prima?

Lele, prima di rispondere, mi lancia un occhiata. — Quella

cosi cosi.

-    Oggi è sabato e per comprare il pezzo devo aspettare fino a lunedi. In più devo sostituirlo, per cui mi sa che prima di martedì non riuscirete a ripartire.

-    Quella buona?

-    Avete spaccato solo la catena della distribuzione. Se andavate un po’ più forte vi partiva il motore e cambiare un motore di una Mercedes...

-    Okay, okay... E quella cattiva?

-    Che vi costerà comunque un bel po’ di soldi.

-    Cioè?

-    Da un milione e mezzo a due milioni.

-    Oddio voglio morire.



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