CAPITOLO UNDICESIMO

Il sole è una palla sgonfia sulla linea dell’orizzonte. Ed è da li che parte la luce. Una luce azzurra, quasi viola, da crepuscolo. Cola sulle montagne, dentro la vallata, e rende il verde dei boschi dello stesso colore del petrolio. Dall’altra parte, invece, verso est, la luce ha lo stesso colore del mare. Perché da questa parte c’è l’arco della riviera adriatica, e li, la luce quando il sole tramonta, si fonde con il blu del mare.

Questa cosa che il sole sorge dal mare e tramonta dietro le montagne mi aveva sempre affascinato. Quando ero bambino pensavo che gli abitanti di San Marino fossero molto fortunati. L’alba sul mare e il tramonto dietro le montagne. Poi ho pensato che loro un tramonto su quel mare non l’avrebbero mai visto. E mi era venuta una sorta di tristezza. Nemmeno tutti quelli che abitavano lungo la costa adriatica l’avrebbero mai visto. Certo, ci si poteva spostare, andare dall’altra parte, sulla costa tirrenica. Ma non era la stessa cosa. Perché li, su quel mare, il tramonto, non ci sarebbe mai stato. Li, da quella parte, il sole mai e poi mai sarebbe tramontato.

Compriamo le piadine in un chiosco e intanto decidiamo di farci un giro nel centro storico.

Oltrepassiamo la porta e quello che ci si apre davanti è un altro mondo. Perché San Marino è un altro mondo. Una cittadella medievale, fatta di vicoli e stradine che s’inerpicano, si incrociano e poi ridiscendono. È un reticolo caotico scavato nella roccia. Ma adesso ci sono i turisti, un cordone mobile e variopinto che si snoda compatto. Adesso ci sono i negozi aperti, illuminati. È un volto con tanti occhi, la San Marino dei turisti.

Non l’ho mai vista, io, San Marino di notte. Ma me la immagino. Quando le porte sono tutte chiuse e la gente dorme e il buio e il silenzio e il vento aderiscono ai muri delle case.

Non seguiamo un percorso preciso, io e Becco. Saliamo a caso, distratti dalla musica che esce dai negozi e dalla gente che ride e che parla. Lingue diverse, gente diversa, straniera.

Getto la lattina di coca in un bidone della spazzatura e infilo le mani in tasca. - Secondo te lo troviamo Lele? - chiedo.

Becco mi lancia uno sguardo veloce. - Non ti facevo cosi ingenuo.

—    Perché?

Si ferma, e io sono costretto a girarmi indietro.

—    Sai cosa penso? — dice. - Ho il vago sospetto che non lo rivediamo fino a domattina.

—    Cosa?

Becco scrolla le spalle, infila anche lui le mani in tasca e mi supera.

—    Cosi. È una sensazione.

Cammina guardandosi la punta delle scarpe, il ciuffo di capelli che gli copre metà del volto. Sembra distratto. I suoi passi sono lunghe falcate, e io fatico a stargli dietro.

Per un po’ stiamo in silenzio. Non so a cosa sto pensando. Mi sembra tutto cosi irreale.

Forse dove siamo adesso non è il punto più alto di San Marino, ma in un certo senso sembra davvero di stare sul tetto dei mondo. La piazzetta è quella che i turisti chiamano Panoramica. È illuminata da fari arancione con panchine di pietra e telescopi a moneta per guardare di sotto. È una terrazza protesa sul vuoto. Sospesa tra il cielo e la terra. Esposta ai venti. E infatti fa freddo quassù, benché sia estate e il cielo sia sereno.
Si vede la pianura che corre fino al mare, da quassù. Rimini e Riccione lungo la costa e le case illuminate di San Marino bassa sul fianco del monte. Di notte è un unico paesaggio nero, un unico spazio infinito che include terra, mare e cielo. E a dividerli, terra, mare e cielo, solo le stelle e le luci di Rimini.

Io e Becco ci siamo avvicinati al muretto esterno per guardare il paesaggio. Ce la luna questa notte, un arco sottile e perfetto. Quasi un graffio. La sto guardando perché è bassa nel cielo e sembra enorme. Anche Becco la guarda, ne sono certo, perché ad un certo punto rompe il silenzio e dice: - Sotto la luna / l’ombra che si allunga / è una sola.

—    Borges, - dico.

—    Gia.

—    Se ci fosse Lele chissà cosa ti avrebbe detto.

—    E un ignorante, Lele, - dice Becco. Poi mi guarda e sorride.

—    Che c’è? - chiedo.

—    Niente... — Adesso sta ridendo, però.

—    Che c’è?

—    Te lo ricordi quel giorno in gita a Roma davanti ai Musei Capitolini?

Mi ci vuole qualche secondo per collegare, poi mi ricordo e scappa da ridere anche a me.

—    Quando lui non voleva entrare a vedere le statue?

—    Ha detto che gli veniva da vomitare, che non si sentiva bene...

—    È vero, è vero... E la prof di storia dell’arte? Cose che disse?

Becco si copre gli occhi con una mano e soffoca un’altra risata.

—    Sarebbe alquanto disdicevole, Martinelli, che lei vomitasse davanti ai busti degli imperatori romani...

—    E mentre noi facevamo il pieno di cultura, Lele è scappato ed è andato a comprarsi un paio di anfìbi...

—    È vero!
Io e Becco ci guardiamo.

-    Dio, che stronzo...

-Già.

Si è alzato il vento. Ci gira attorno ed è come una membrana clastica che avvolge lo spazio ed esalta il silenzio. Perché adesso ( è silenzio quassù. Anche gli ultimi turisti se ne sono andati. C !'è solo una coppia dall’altra parte della piazza. Sono abbraccia-t i. Li guardo per qualche istante perché non riesco a capire se si stanno baciando o no.

Abbiamo parlato del più e del meno, io e Becco. Più che al-tro abbiamo ricordato cose di quando eravamo al liceo. Ad esempio quando in settimana bianca, una notte, Lele si era messo la cravatta sopra il pigiama per andare nelle stanze delle ragazze. Il prof di filosofìa l’aveva beccato nel corridoio e poiché sapeva quali erano le cose che Lele non tollerava, gli aveva detto che quella era la cravatta più brutta che avesse mai visto. E Lele c’era rimasto cosi male che era tornato dritto filato nella sua camera. Queste e altre cose ricordiamo. Ci viene da sorridere e forse anche un po’ di malinconia.

La coppia di prima ci passa davanti e si allontana. La seguiamo con lo sguardo finché non scompare ai limiti della piazza, inghiottita poco a poco dalla discesa. Adesso siamo veramente soli. Il rumore delle auto che percorrono le strade sotto di noi ci arriva attutito, un rombo sordo e lontano come se provenisse da un sogno.

Ci sediamo per terra con le spalle contro il muretto. Il cielo poggia sulle nostre teste, immenso. E uno spazio morbido, denso e vivo. È lucido di stelle e cosi vicino che per un attimo ho la sensazione che possa staccarsi e scivolare in basso e inglobarci. È una strana sensazione quella che provo. Il buio che espande le cose, il vento che batte la pietra, e il silenzio. Che non è silenzio ma è quasi un ronzio, un respiro ovattato, una voce continua e bassa che cola e penetra ovunque.
È una strana sensazione quella che provo. Di infinita solitudine e libertà.

—    Becco?

—    Si ?

La mia voce mi sembra diversa. È come se mi uscisse diretta-mente dalla testa o da un posto che non so. È una lama che gratta la notte, che ci passa attraverso, ma senza scalfirla.

—    Che farai adesso? Dopo il liceo, intendo...

Becco mi guarda. Ce qualcosa di diverso anche nei suoi occhi. Una luce che non ho mai visto. Ma forse non è nemmeno una luce. Forse è un movimento. O un’ombra.

—    Non lo so, - dice. - Forse mi iscriverò a Lettere.

—    Non avevo dubbi.

—    Scelta prevedibile, vero?

—    Credo sia l’unica cosa che tu possa fare. Non che tu non sia in grado di fare altro, ma...

—    Non ti preoccupare ho capito...

Per un istante, un istante soltanto, i suoi occhi mi guardano come se non mi vedessero.

—    Anche se non credo che questa scelta mi cambierà qualcosa.

—    In che senso?

Becco ha spostato lo sguardo altrove. Guarda dritto di fronte a sé, adesso. La luce arancione dei fari schiarisce il profilo del suo volto. Si circonda le ginocchia con le braccia e inizia a dondolare avanti e indietro. Un movimento lento e breve, piccoli scatti sottolineati dai giochi d’ombra che la luce disegna sul suo volto.

—    Lo vuoi sapere un segreto? — dice.

—    Quale?

—    Guarda che è un segreto, lo sa solo mia sorella...

—    Okay...

—    Ho scritto un romanzo.
—    Davvero? E di cosa parla?

—    Di un angelo. Un angelo dannato.

—    È magnifico...

Becco piega la testa sulla spalla e mi guarda. Il suo volto, illuminato per metà, è diviso in due da una linea fluida e morbida.

-    Be’, tanto magnifico non è visto che me l’hanno già rifiutato ben quattro case editrici.

-    Forse è solo questione di sfortuna...

-    O forse sono io che non so scrivere.

Non mi guarda più, adesso. Si guarda la punta delle scarpe. Il ciuffo di capelli gli scende sulla fronte e gli copre gli occhi.

L’ha pronunciata con un tono triste quella frase. O forse era solo un sussurro che si è spento lentamente.

—    Potresti sempre riprovarci, - dico.

—    Già fatto. Probabilmente lo staranno usando come spessore sotto un tavolo traballante.

-    Esagerato!

-    Davvero —. Mi guarda e sorride, Becco. - O per accendere il fuoco. Brucia bene la carta da stampante, sai?

È una strana notte, questa notte. Abbiamo lasciato la piazzetta e adesso stiamo camminando fra i vicoli deserti. Penso che San Marino di notte è proprio come me la ero immaginata. Silenzio, vento, e fette di cielo stellato incastonate tra i tetti delle case.

È una strana notte, questa notte. La luna è un ricciolo luminoso ritagliato nel buio. Assorbe e dilata le cose, questa notte lontani da casa. Fa venire voglia di parlare, di raccontare, o anche solo di camminare in silenzio. Di sentire i propri passi sotto le scarpe.

Il pensiero di lei mi attraversa veloce. Il suo volto emerge dal niente, una sfumatura più chiara che si dilegua subito, risucchiata indietro in un vortice nero. Quando ci penso, penso che sono poche le cose che mi sono rimaste. Sono flash, schegge colorate. I pomeriggi passati a rotolarci sul letto invece di studiare, la telefonata fissa delle sette di sera che durava un’ora e sua mamma si incazzava, i baci nel bagno delle femmine durante l’intervallo a scuola. Penso che sono le cose più banali quelle che mi sono rimaste. Ma sono proprio queste cose che mi mancano di più. I discorsi sciocchi fatti tanto per parlare e i suoi capricci. E adesso che lei non c’è più mi accorgo che quelle cose banali riempivano le mie giornate.

È davvero una strana notte, questa notte. Fatta per girarci dentro. Dentro la notte e dentro la testa. I pensieri sono lava di un azzurro trasparente.

-    Becco?

-Si?

-    Davvero non lo sa nessuno del tuo romanzo?

-Si.

-    E perché l’hai detto a me?

-    Perché mi sembri la persona giusta a cui dirlo.

-    Davvero?

-    Davvero.

Nei vicoli alcuni negozi non hanno la saracinesca abbassata e quando ci passi davanti, di notte, al buio, le vetrate scure rimandano indietro la tua sagoma. Un’ombra silenziosa e nera che ti cammina a fianco per qualche istante e poi si perde.

Con la coda dell’occhio guardo il riflesso dei nostri corpi sul vetro. Non avevo mai pensato a quanto fossimo fisicamente diversi io e Becco. A dire il vero io, Becco e Lele componiamo uno strano trio. Becco porta solo camicie a tinta unita. Bianche, rosse, blu o nere. Le porta abbottonate fino al collo anche d'estate. E poi è magrissimo. Cosi biondo, pallido e magro sembra uno di quei damerini inglesi di certi film. Tutto il contrario di Lele.
Con le sue polo firmate, i capelli tenuti dritti col gel e l’abbronzatura perenne. E poi Lele sorride sempre. O quasi. Un sorriso aperto e furbo. Una faccia di travertino, come dice Becco. Al contrario di me. Che non sorrido quasi mai, che mi pettino quando mi ricordo e che m’infilo la prima cosa che capita. Lele dice che se mi curassi di più avrei anch’io un sacco di ragazze. Ma stare davanti allo specchio un’ora a pettinarsi mi sembra ridicolo. Lele fa anche le prove degli sguardi, davanti allo specchio. Una volta l’ho pure beccato nel bagno della scuola. Se non I avessi visto non ci avrei mai creduto.

Penso a questa cosa e sorrido. Becco mi guarda e dice: - Perché ridi?

—    Niente... Pensavo a Lele...

—    E allora c’è da piangere non da ridere.

—    E perché? A volte trovo che sia buffo.

—    Certo. È cosi buffo che fa venire voglia di strangolarlo. È odioso a volte.

—    Non è odioso.

—    Si che lo è.

—    Hai ragione. Certe volte lo è. Però è simpatico.

—    Te lo concedo, si. Certe volte è simpatico...

C’è un vecchio cancello stretto e arrugginito alla nostra destra. È rialzato rispetto al livello della strada e mentre ci passiamo davanti Becco alza lo sguardo e si ferma. Sale quelli che un tempo dovevano essere gradini e accosta la faccia alle sbarre del cancello.

—    C’è un giardino, - dice.

Mi fermo anch’io. - E allora? - Mi avvicino a Becco e guardo anch’io attraverso le sbarre.

—    Mi piacciono i giardini abbandonati a se stessi, - dice.

—    E allora?

—    C’è anche un vecchio pozzo...

—    E allora?
-    E allora voglio entrarci.

Non so come abbia fatto a vedere il pozzo visto che è cosi buio che non riesco a distinguere nemmeno i miei piedi. Camminiamo lentamente, uno davanti all’altro cercando di fare attenzione, perché il giardino è ricoperto di foglie che scricchiolano sotto le scarpe e rendono il terreno scivoloso. Gli alberi sono macchie allungate e dense, vecchi tronchi neri che si perdono dentro il cielo.

-    Ce un passaggio di là, - dice Becco.

—    Ma dove lo vedi tu il passaggio? E poi non ti interessava il pozzo? E allora eccolo...

-    Seguimi, dài! E parla a bassa voce!

—    Perché?

-    Apparterrà a qualcuno questo giardino, o no? Metti che ci scoprano, ci fanno un culo cosi!

Quello che Becco ha chiamato passaggio sono due assi di legno larghe neanche mezzo metro. Ma la cosa più agghiacciante è che fanno uno strano scricchiolio e sono sospese sul niente. Mentre strisciamo contro il muro alla nostra destra getto un’occhiata dall’altra parte. Quello che vedo è il niente più assoluto, ma un niente che ti fa capire che il vuoto sotto i tuoi piedi è più vuoto di quello che pensi.

—    Spero per te che si arrivi da qualche parte, - dico.

—    Fidati.

La prima cosa che vediamo sono le luci gialle di Rimini. Una scia compatta di granelli luminosi. Un mantello irregolare di luci che parte dalla costa e si sfrangia verso l’interno della pianura.

Siamo sbucati in un altro giardino. Un giardino a strapiombo dal quale si domina lo spazio. Lo stesso spazio di prima, di quando eravamo sulla terrazza, ma più intenso e profondo. E guardare è come aderire con tutto il corpo. Contro il nero del cielo e il bianco delle stelle e della luna che da questa posizione è ancora più grande e nitida. E poi in basso, contro la pianura che è una voragine fatta di alberi e finestre illuminate. È come perdersi alla velocità dello sguardo senza riuscire a fermarsi. Essere esattamente nel punto estremo di una vertigine.

-    È fantastico quassù... — La mia voce è un sussurro che si perde nel vuoto.

—    Già... Me lo sentivo che era cosi... Giuro che me lo sentivo...

Guardo Becco. La sua sagoma scura di fianco a me, il suo

sguardo attento e fermo e le sue labbra socchiuse. Non so quello che sta pensando, ma quando gira la testa verso di me e mi sorride, quello che provo è un sentimento di totale complicità.

Questa è una notte strana, Becco. È come se il tempo si fosse fermato e tutta la terra fosse sprofondata in un sogno lento e morbido. Il mondo qui fuori si muove, Becco, ma si muove lentamente, gira piano attorno a noi e noi, se vogliamo, lo possiamo afferrare, perché gira a un ritmo allungato e fluido, un ritmo perfetto che si accorda con il nostro. Se tu adesso ci pensi, Becco, ti rendi conto che quello che è veramente importante adesso è starsene qui dritti contro questo cielo e desiderare che questo momento duri per sempre, che questa lunga notte non finisca più. Perché domani la vita ricomincia, Becco, e questa notte domani sarà un ricordo, un ricordo bello e triste come quelli del liceo, come tutti i ricordi che col tempo diventano tristi perché sono ricordi di cose belle che non tornano. Io non lo so a cosa stai pensando, ma se mi sorridi e sorrido anch’io vuol dire che le cose a cui stiamo pensando sono le stesse. E allora ammettilo che ci manca solo Lele questa notte, Lele che ride di noi, che non smette un attimo di prenderci in giro e che se fosse qui direbbe che è tutta una cazzata quella di starsene qui col naso in aria a guardare la luna, le stelle e menate simili. Lo so che magari è ridicolo, Becco, ma se penso che questa sera mi hai confidato il tuo segreto mi viene come una strana cosa tra lo stomaco e la testa, perché forse ti conosco un po’ di più e conosco un po’ di più anche Lele, quello stronzo che ci ha lasciato a piedi e che farà di tutto per non partire per l’Inghilterra. Lo so che magari è ridicolo ma questa notte mi sento bene, Becco, mi sento bene e vorrei che ci fossero infinite notti come questa dove tu stai in piedi su una rupe e guardi il mondo fuori e non devi preoccuparti di niente, né di quello che farai domani né se quello che farai porterà da qualche parte oppure no. Chi se ne frega, Becco, perché questa è una notte strana, e adesso siamo qui e ci manca solo Lele e domattina quando lo rivediamo ci incazziamo ma nemmeno poi tanto perché questa notte mi viene in mente quella canzone dei Nirvana, quella che ascolta sempre Lele e che uice sono cosi felice perché oggi ho trovato i miei amici nella mia testa, mi viene in mente questa canzone Becco, mi viene in mente questa canzone...

—    Becco?

-Si?

—    Cosa pensi che direbbe Lele di questo panorama?

—    Lo vuoi davvero sapere?

-Si.

—    Direbbe che è tutta una cazzata.

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