CAPITOLO VENTESIMO

La mattina dopo, di Lele non c’è alcuna traccia. C’è l’impronta del suo corpo sul sacco a pelo, c’è il suo zaino, c’è la polo del giorno prima tutta arrotolata sopra lo zaino chiuso e c’è un biglietto con su scritto ci vediamo più tardi. Ciao.

-    Dove cavolo sarà? - dico.

-    Non lo so...

-    E se fosse un altro dei suoi colpi di testa? Metti che sia scappato...

-    Impossibile, - dice Becco. — C’è il suo zaino... Uno come Lele non si muove senza mezzo armadio dietro.

-    E allora dov’è?

-    Boh. Forse è in paese, forse dal meccanico, che ne so.

-    Già, è vero, - dico. — Oggi ci accomoda la macchina...

C’è una strana atmosfera, questa mattina. Un senso di imminenza e conclusione che mi preme addosso, una sensazione di fastidio che mi sommerge e mi fa stare in silenzio.

-    Che hai?

Siamo al bar e Becco mi parla da sopra la tazza fumante del cappuccino, senza guardarmi e con un tono piatto, assente. Anche lui sembra precipitato in una dimensione lontana.

-    Non ho voglia di partire, - dico di getto.

Becco appoggia la tazza sul piattino e mi guarda. Adesso il suo sguardo è quello di sempre, concentrato e fermo come se volesse passarmi attraverso.
—    Il fatto è che ho paura di incontrarla. Non so nemmeno cosa dirle, non so nemmeno perché sto andando da lei...

Abbasso gli occhi sulla mia mano stretta attorno alla tazza. L’indice infilato dentro il ricciolo del manico.

—    Ho il presentimento che tra me e lei non cambierà nulla, ne sono quasi convinto... È il mio ultimo tentativo e ho paura. A volte penso che sia stato un errore andare da lei, voglio dire, l’incertezza è sempre meglio di una delusione...

—    Lo so, - dice Becco. - Credo di capirti. Sai, - dice dopo un po’, - Lele ha ragione. Ognuno di noi combatte contro qualcosa e a volte ti viene voglia di scappare. È come se non valesse la pena.

Abbassa lo sguardo e sorride, incerto. Si passa una mano sugli occhi e se li stropiccia lentamente.

—    Io non ho voglia di tornare, invece. Non ho voglia di tornare a casa, non ho voglia di fare le stesse cose, non ho voglia di niente.

—    Come stai?

—    Svuotato. Poi penso a quello che mi ha detto Lele ieri sera... Non me l’aspettavo da lui... Probabilmente mi passerà, mi ci vorrà un po’ di tempo per riprendermi dalla delusione, ma credo che mi passerà...

—    Si, lo credo anch’io.

—    Ale, fai bene a provarci. Con lei, intendo. Almeno cosi non ti rimane il dubbio. L’incertezza non è affatto meglio di una delusione. Macerarsi nel dubbio non mi sembra una gran cosa... E poi com’è che dice Lele? Il inondo è pieno di donne...

—    Già, - sorrido. - Su questo ha perfettamente ragione.

Anche Lele è strano oggi. Lo incontriamo dal meccanico mentre passiamo per tornare all’aia. È quasi mezzogiorno. Il portone dell’offidna è spalancato e lui è li, accanto alla macchina, immobile e con le braccia incrociate. Dice qualcosa al meccanico che sta lavorando piegato dentro al cofano dell’auto, inghiottito per metà da quella enorme bocca di metallo. Non appena ci nota solleva un braccio per chiamarci e ci viene incontro.

-    Allora? — dico.

-    Ho accompagnato il meccanico a Villafranca per comprare il pezzo. Credo che ci farà un favore, ci lavorerà tutto il pomeriggio e anche stasera. Dice che cosi, se vogliamo, possiamo ripartire anche stanotte.

-    Oh... perfetto... - dico.

-    Si... — sorride. — Perfetto...

È strano, Lele. Sorride ancora, ma è come se quel sorriso fosse solo un gesto, il più facile, per mascherare qualcosa. Abbassa lo sguardo e dice okay, io starò un po’ qui. Poi, infila le mani in tasca, ci volta le spalle e torna dentro l’officina.

Nessuno ha voglia di andare via, penso. Essere in questo posto, lontano da tutto il resto, ci ha fatto sentire padroni di qualcosa, di noi stessi e delle nostre vite. Nessuno ha voglia di andare via, di ricominciare. La stessa cosa di quella notte in quel giardino a San Marino, la stessa sensazione. Un mondo che gira più lentamente, un mondo il cui ritmo si accorda col nostro. Forse abbiamo solo paura. Forse da quando siamo partiti non abbiamo smesso un istante di scappare. Forse quello che stiamo cercando è l’esatta misura di noi stessi. Ma capire, capire quello che vogliamo, è diffìcile. Capire ciò che siamo, è difficile.

Lo guardiamo allontanarsi, Lele. Becco socchiude gli occhi, pensoso, e dice è successo qualcosa.

-    Si-

Dentro l’officina Lele ha ricominciato a parlare col meccanico. Muove una mano per accompagnare le sue parole, piccoli gesti fluidi e lenti. Quello che dice non riusciamo a sentirlo, mozziconi di frasi, la fine di qualche parola e niente altro. Probabilmente fa domande, perché ogni tanto annuisce. Si passa una mano sulla fronte, per il caldo. E poi di nuovo, parla, gesticola e annuisce. I suoi occhi però, la traiettoria del suo sguardo, è in quello che c’è qualcosa di stonato. Uno sguardo assente e disinteressato.

Per la prima volta dall’inizio del viaggio, ci dividiamo. Becco torna al bar nella speranza di incontrare il vecchio Aristide, Lele rimane tutto il pomeriggio nell’offìcina, io torno all’aia.

È solo un bisogno di restare da soli. Solo una necessità come a volte succede. Una parentesi, un ritaglio di spazio che non richiede spiegazioni.

Vorrei scriverle una lettera, adesso. Scrivere e dirle tutto quello che mi passa per la testa. Ricordare cose e raccontarle di questo viaggio assurdo, dalle mille sfumature. Chiederle se mi ama ancora, o se non mi ama più chiederle perché ha smesso di amarmi. Sono solo frammenti di pensiero, sensazioni dai toni pallidi che vanno da una parte all’altra, tra le pareti della testa.

L’intenzione di scriverle è forte e spinge le mie gambe a camminare più velocemente lungo la strada che porta all’aia. Quando arrivo strappo un foglio dalla mia agenda e mi siedo sotto un albero, le gambe raccolte e l’agenda in equilibrio sulle ginocchia. Vorrei scriverle, un ultimo tentativo di sentirla più vicina, l’illusione di sentirmela accanto e di dire quello che vorrei ad alta voce. Ma le cose che mi girano nella testa sono troppe, e più mi concentro per strapparne qualcuna dal fondo, più queste si diradano. Come una coltre di fumo che si spezza quando ci passi una mano attraverso.

Raccontarle, dirle di me, parlarle. Il perché di questo viaggio, per esempio. Ma le parole si confondono, affogano nei pensieri e la mia mano rimane bloccata, sospesa sul foglio.

Forse perché lei non c’entra più con questo viaggio. Forse perché questo viaggio è diventato un’altra cosa, una cosa mia, di Lele e di Becco. Una cosa diversa che non la riguarda più.

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