CAPITOLO VENTIDUESIMO

Ripartiamo la mattina dopo verso le nove. Lasciamo l’aia con la sua erba ingiallita dal sole, e i resti del piccolo falò, il circolo di pietre e la cenere spenta. Percorriamo la strada che ci porta al paese quasi in silenzio, il sole che batte sul parabrezza e tutti i finestrini giù perché fa caldo. Ce il mercato stamattina, un’esplosione di colori e movimenti. Lo sventolio leggero dei vestiti appesi in alto, alle travi superiori delle bancarelle, i banchetti di frutta e verdura, il banco del formaggio e dei salami. Un via vai di gente che passa e si ferma, a comprare, a parlare, a contrattare. Un vociare continuo, come un’onda che cresce, un sottofondo di toni acuti, un miscuglio di timbri.

Un gruppetto di bambini in pantaloni corti, le gambe sottili e abbronzate, gioca all’angolo della chiesa. Rincorrono un pallone rosso, di quelli di gomma leggera, stoppandolo e calciandolo, e il fruttivendolo esce sulla soglia del negozio, indica le cassette esposte piene di frutta e verdura e urla qualcosa in un accento stretto dalle vocali aperte e lunghe.

È un senso di familiarità quello che proviamo, quella sensazione di confidenza che prende per i luoghi sconosciuti quando li frequenti, li percorri e li assimili. Come questo paese, che a forza di vederlo e rivederlo, la piazza enorme e disarmonica, le case schiacciate le une contro le altre e il bar con le pareti ingiallite e le cannucce alla porta, alla fine estraneo non lo è più.

Il barista dice che Aristide non viene mai la mattina, ma stamattina è arrivato alle otto perché se lo sentiva che partivate e vi voleva salutare.

Becco non voleva ripartire senza aver salutato il vecchio.

È seduto al suo solito posto, il volto immobile e gli occhi stretti in un’espressione concentrata che si allargano un po’ quando ci riconosce. È Becco ad avvicinarsi per primo. Gli si china di fronte e tutto quello che dice, piegando le labbra in un sorriso che a me e a Lele sembra commosso, è un semplice grazie di tutto. E allora gli occhi del vecchio, piccoli e scuri sotto le palpebre, per un attimo si illuminano.

—    Buona fortuna, giovane Rimbaud.

Sulla soglia ci voltiamo un’ultima volta. Il vecchio ha un braccio alzato in segno di saluto e sorride. Quel sorriso un po’ buffo e malinconico che hanno solo i vecchi.

Lele non vuole correre in autostrada. Dice che ha paura che succeda qualcos’altro, un altro guasto. Sarebbe il colmo della sfiga, dice. Ma la Mercedes è una macchina grande, potente, e se vai piano ti sembra di essere fermo. E cosi, col piede che scivola facilmente sul pedale dell’acceleratore, non ci vuole niente a fare i centosessanta. Non c’è nemmeno molto traffico, stamattina. Niente camion, solo poche auto che si rincorrono veloci, e che rallentano un po’ prima di una curva. Non ci sono quasi gallerie in questo tratto, un paio appena dopo Pescara e basta. Non come prima, tre giorni fa, che tra San Benedetto del Tronto e Pescara è tutta una galleria. Non si vede nemmeno il mare, adesso. L’autostrada è un serpente che aggira gli ostacoli, snodandosi come un grosso fiume nero tra i tratti collinari e i paesi. Ci sono un sacco di paesi in questa zona. Fette di strade a gomito che corrono di fianco, sotto e sopra l’autostrada.

Nel cruscotto ho trovato una vecchia cassetta, un’antologia di pezzi jazz, Duke Ellington, Louis Armstrong, Charlie Bar-net, Benny Goodman, swing veloci di tromba e clarino, ritmi pieni e ritmati, limpidi. Lele ha detto che era di suo padre, la cassetta, e voleva buttarla fuori dal finestrino. Io gli ho detto che non era giusto.

-    E perché? - ha risposto lui.

-    Non lo so, ma non mi sembra corretto.

-    Ale, non parlarmi di correttezza, - ha detto.

-    Se vuoi la rimetto dove l’ho trovata, ma buttarla via...

-    Okay, okay, senza bisogno di fare quella faccia... Se ti va l’ascoltiamo...

-    Se ti dà fastidio...

-    Non mi dà fastidio.

-    Davvero, guarda che...

-    Ale, non mi dà fastidio...

-    Dài, fa lo stesso...

-    Insomma, la vuoi sentire si o no?

-Si.

-    Okay, allora mettila su.

Le note sincopate riempiono subito l’abitacolo. Mettono allegria cosi veloci, alte e secche. Non lo so cosa pensa Lele in questo momento, se quella cassetta gli ricorda suo padre, se magari durante un giro in macchina l’hanno ascoltata insieme, non lo so. Una musica o una canzone anche allegra mette tristezza se l’hai ascoltata con chi adesso non c’è più. A me succede con gli Oasis, o con gli U2 che non riesco più a sentirli perché mi ricordano lei. Ma dopo un po’ ho visto che Lele batteva il pollice sul volante e muoveva la testa, a ritmo, e allora mi sono detto che forse lui, quella cassetta, era la prima volta che la sentiva.

Poco prima dell’uscita per Termoli ci fermiamo all’autogrill. Compriamo le solite cose, qualche panino, una bottiglia d’acqua e un paio di lattine di coca. Mentre Becco fa la fila alla cassa io e Lele andiamo alla toilette.

Quando esco dal bagno, Lele, che si sta lavando le mani nel lavandino, mi guarda attraverso lo specchio. - Sei uno straccio, - dice. - Dovresti risistemarti un po’, farti la barba... Non vorrai mica presentarti da lei in queste condizioni?

-    Andiamo... Non ci farà nemmeno caso...

-    Guardati.

Mi guardo. I capelli mi spiovono sulla fronte, ho gli occhi segnati e una peluria sparsa sopra il labbro e sul mento.

-    E quella maglietta? Sembra che tu ci abbia dormito tutta la notte.

-    Ci ho dormito tutta la notte.

-    Senti, adesso ti cambi, ti lavi e ti fai la barba -. Mi porge la schiuma da barba e un rasoio nuovo e sorride. — Avanti, - dice.

-    E tu? - Anche lui ha il volto segnato, i capelli arruffati e qualche pelo che gli spunta sul mento.

-    A me non serve, non sono io che devo incontrare...

-    Lele che hai?

-    Niente.

-    Non è vero. Non è da te andare in giro cosi.

Lele si guarda allo specchio e si passa una mano sui capelli. Appoggia entrambe le mani sul bordo del lavandino, stringendolo. Non sorride più, adesso.

-    Ora il mio cellulare funziona, — dice dopo un po’, - c’è la batteria, allora perché non mi ha chiamato?

-    Dagli tempo, forse non è un gran momento nemmeno per lui.

Lele scuote la testa. — No... Io mi fidavo, è mio padre... Sai quanto mi ha dato di soldi per questo viaggio? Dovevano essere due giorni e lui sai quanto mi ha dato?

-No.

-    Un milione in contanti e il suo bancomat. E la macchina? Dovrei sentirmi fortunato... Ti ricordi quando siamo partiti? Mio padre mi ha dato anche la Mercedes... Che stronzo, sono solo uno stronzo.

-    Ti stai facendo del male per niente...

-    Che cazzo me ne faccio dei suoi soldi e della sua macchina?

—    Lele...

—    Ale, io non ci voglio tornare a casa. Ho paura di tornare. Forse sono più viziato di quello che credo, forse sto facendo un dramma per niente, ma mi sento come se tutta la mia vita fosse saltata per aria...

—    Benvenuto nel gruppo.

Non ci siamo nemmeno accorti di Becco. E sulla soglia della toilette, la bottiglia d’acqua sotto un braccio, il sacchetto coi panini sotto l’altro e le due lattine di coca in mano.

—    Benvenuto fra coloro che a casa «manco col cavolo che ci vogliono tornare», - ripete con un sorriso. — Comunque a me non sembra che il viaggio sia finito, no? Chi se ne frega di tuo padre e chi se ne frega del mio romanzo, adesso dobbiamo pensare ad Ale.

Io e Lele ci scambiamo un’occhiata.

—    Avanti, Lele, - dice Becco. - Chi-sse-ne-ffre-ga!

Lele si copre gli occhi con una mano e sorride. Poi allarga le braccia e dice: - Okay, hai ragione...

—    Chi se ne frega?

—    Si, si, chi se ne frega...

—    E tu fatti la barba che sei pietoso!

Quando arriviamo dalle parti di Foggia, Becco si appoggia con un gomito al mio sedile, spinge la testa in avanti, tra me e Lele e dice: — Una volta mi sono innamorato.

—    Cosa? — dice Lele.

—    Dai dieci ai quattordici anni sono venuto con i miei genitori in vacanza proprio qui, sul Gargano.

—    E dove? — dico io.

—    A Vieste. La cosa strana è che me lo sono ricordato adesso, non ci avevo più pensato per anni.

—    E lei? Come si chiamava? - dice Lele. Si è tolto gli occhiali e guarda Becco attraverso lo specchietto retrovisore.

—    Alessandra, era la figlia dei padroni dell’albergo. Mi ricordo che aveva un sacco di capelli, castano chiaro, lunghi fino alle spalle e tutti ricci. Sua madre le metteva sempre un fiocco enorme in testa per tenerglieli indietro e lei puntualmente, quando andavamo in spiaggia se lo toglieva perché diceva che cosi sembrava proprio cretina, un uovo di pasqua, diceva. Era carina...

—    Wow, - dice Lele, — allora anche i secchioni si innamorano. E cosa facevate? Le recitavi poesie?

—    Non dire scemenze, no! Anzi, ci divertivamo un sacco. Lei aveva tantissimi amici, però quando arrivavo io, ad agosto, sembrava che degli altri non le importasse più, stavamo sempre da sol*. È stata lei che mi ha insegnato a nuotare. La sera usciva sempre con me e i miei genitori e a volte scappavamo dalla spiaggia, ìi pomeriggio, e andavamo a girare per Vieste.

—    E poi? Che è successo? - chiedo.

—    Durante l’inverno ci scrivevamo, e facevamo progetti per l’anno dopo. L’ultimo anno che sono andato li, quando l’ho rivista per poco non mi prendeva un colpo. Avete presente no, che le donne si sviluppano prima? Be’, insomma lei era...

—    Sviluppata? — dice Lele.

—    Si, e non solo in altezza. Era più alta di me di una spanna... comunque era assolutamente fantastica.

—    E allora?

—    Ci siamo baciati...

—    Cosi, senza... - dico io.

—    Baciati e basta? - dice Lele.

—    No, non cosi... Cosa vuol dire baciati e basta, avevamo quattordici anni!

—    Io a quattordici anni...

—    See, chissà che facevi a quattordici anni, ma piantala...

—    Tu ridi, ma...

—    Dài, Lele, fallo finire...

—    Okay, okay, dicevi?

—    Niente... Mi ero innamorato. È stata la più bella estate di tutta la mia vita. Sembrava tutto diverso, più bello...
—    E poi? - dice Lele.

—    E poi niente, quello è stato il mio ultimo anno, da allora non ci sono più tornato...

-E lei?

—    Ci siamo scritti per un po’, e poi sapete come succede, le cose finiscono, si cresce... Non lo so che fine ha fatto.

—    Non ce lo avevi mai detto, — dice Lele.

—    Non me lo avete mai chiesto.

—    E se la rivedessi adesso? - chiedo.

—    Non lo so... Ormai è passato, è un ricordo. Anche Vieste mi piaceva, ma è passato. È un ricordo anche quello, adesso.

Sorride, Becco, uno strano sorriso, malinconico. Poi si passa una mano fra i capelli, lentamente, per tirare indietro il ciuffo che gli scende sulla fronte.

Ci fermiamo a fare benzina in un autogrill prima di Bari. È da poco passato mezzogiorno, ma viaggiare sotto questo sole ci ha stancato. Parcheggiamo l’auto all’ombra e scendiamo a sgranchirci le gambe. Compriamo qualcosa di fresco da bere e ce ne stiamo cosi per un po’, seduti sotto un gruppo di alberi, immersi nel rumore delle auto che passano.

Da Bari la superstrada che porta a Brindisi costeggia il litorale. Alla sinistra il mare blu e liscio come una tavola, e a destra il paesaggio brullo della Puglia. Ho dato il cambio a Lele perché lui era stanco di guidare. Ogni tanto lo spio e cosi abbandonato sul sedile con le gambe allungate sotto il cruscotto, stanco mi sembra davvero. Con la barba di due giorni, peli scuri sparsi un po’ a casaccio sulle guance e sotto il mento e i capelli flosci e senza gel, non sembra nemmeno più il Lele di quando siamo partiti cinque giorni fa. Stamattina non si è nemmeno cambiato la polo.

Becco, dietro, sfoglia svogliato il giornale che ha comprato in autogrill. I suoi libri, che di solito cercava di tenere impilati nonostante il movimento della macchina, sono scivolati l’uno sull’altro lungo il sedile. Una lingua spessa e dura di scaglie colorate.

La macchina continua a inghiottire asfalto e a superare altre macchine. Pur stando attento alla strada, a tratti mi accorgo di distrarmi. Le case bianche e squadrate, le strade polverose e piccole oltre i guardrail e poi questo mare liscio, immenso e blu alla mia destra. I Beatles che dalla radio cantano And I love her.

A Brindisi rientro in autostrada direzione Lecce. Appena quaranta chilometri che scivolano via come se niente fosse. Il paesaggio che scorre inafferrabile tra un bordo e l’altro del finestrino alla mia sinistra è la misura esatta della distanza che si accorcia.

All’improvviso la consapevolezza dell’arrivo mi si stacca dal fondo della mente, un pezzo dopo l’altro come croste giganti di vernice secca. La meta che, da quando siamo partiti fino a pochi giorni fa e fino a stamattina, mi sembrava un’idea astratta, vaga e sfumata, adesso si precisa, esce dal limbo e acquista pesantezza. Tutto quello che è successo durante questi ultimi cinque giorni riempie lo spazio tra i due estremi, la partenza e l’arrivo, e si dilata dentro di me come una macchia di olio che si allarga, lenta e precisa. Sono passati secoli da quando siamo partiti e adesso il viaggio sta per finire. Ma io non voglio che finisca e non lo vogliono nemmeno Lele e Becco, non lo vogliono nemmeno loro perché arrivare significa tornare indietro, ripercorrere la strada a ritroso e ritornare a casa. E cosi, mentre guido troppo veloce mi rendo conto che durante questi ultimi cinque giorni il pensiero di lei si è fatto meno intenso, quasi sospeso e in un certo senso lontano. Ci sono state altre cose e adesso che il viaggio sta per finire lei è tornata. Dolorosa e reale come un pugno nello stomaco.
L’anno scorso l’avevo raggiunta in treno. I suoi genitori e lei erano venuti a prendermi a Lecce, e l’ultimo tratto di strada fino a Gallipoli l’avevo fatto in macchina, come adesso. Quello che mi stupisce è che la memoria di questi post, e pm precisa quello che credevo. Ma quello che provo, nell istante in cui riconosco lo svincolo, non è affatto malinconia. E disagio e rab per essermi ricordato della direzione cosi facilmente.

Dritto per qualche chilometro, girare, e poi ancora dritto.

no a Gallipoli.

Nessun commento:

Posta un commento