CAPITOLO VENTITREESIMO

Non me la ricordavo cosi. Almeno la città, Gallipoli, cosi non me la ricordavo. Becco e Lele non ci sono mai stati, ma io si, io ci sono stato. Ci sono stato l’anno scorso, più o meno nello stesso periodo, ma cosi non me la ricordavo. E non parlo dell’atto di riconoscere, la struttura della città, le strade, l’agglomerato urbano. Parlo del ricordare, di ritrovare un nesso con la propria memoria e con tutta una serie di sensazioni. Mi piaceva Gallipoli, mi piaceva perché semplicemente cero stato con lei, ma adesso che ci passo attraverso non mi sembra altro che un’infinita processione di case e palazzi, bianchi e bassi, stretti in una morsa di caldo immobile e soffocante.

Attraverso il centro e mi butto sul lungomare. Lele e Becco hanno abbassato il loro finestrino. Lele addirittura sporge la testa fuori per guardare il via vai di macchine e la gente che attraversa la strada per scendere alla spiaggia. Una fila a perdita d’occhio di auto parcheggiate, il sole che batte sui vetri e torna indietro, una sequenza interminabile di riverberi accecanti. L’aria che entra dai finestrini e che si trasforma in un calore fermo e denso ogni volta che sono costretto a rallentare e a fermarmi. Non mi piace, non era il posto che ricordavo, non era cosi che all’inizio, prima della partenza, prima del viaggio, avevo immaginato il mio arrivo. E non mi piace nemmeno la strada che devia e che conduce fuori, a Baia Verde, dove abitano i suoi zii. Una specie di zona residenziale immersa nel verde, una macchia lussureggiante di alberi bassi, verdi e rossi, con le sue ville bianche e grandi che spuntano come sassi, iceberg di pietra ancorati alla terra. Non mi piace perché mi sembra tutto immobile e senza vita, uno scatto fotografico fatto senza averci messo l’anima. Ecco cosa mi sembra questo posto: una dimensione lontana e senza significato, irritante e fastidiosa come questo sole che aderisce alla pelle e non fa respirare.

-    Magari noi andiamo a farci un giro, — dice Lele. - Scendiamo alla spiaggia, ci facciamo un bagno, non so...

-    Certo... - dice Becco. - E tu Ale... be’, fai con calma, insomma... non abbiamo fretta, noi...

Ho parcheggiato l’auto poco lontano dalla casa, all’ombra, dall’altra parte della strada. Non ho nessuna voglia di scendere. È un attimo lungo di silenzio, di imbarazzo, quasi. Non ci guardiamo neanche in faccia. I miei occhi sono agganciati a un ramo pesante di foglioline verdi che dondola elastico fino a sfiorare il cofano. Ad un certo punto sento la mano di Lele sul mio braccio.

-    Ce n’è voluto, ma alla fine ce l’abbiamo fatta, - dice con un sorriso.

-    Già.

-    E allora cosa aspetti?

-    Non lo so.

-    Avanti... Magari ti chiede anche di restare.

-    Seee, ciao...

-    Se non ci provi non lo scoprirai mai.

-Già...

-    Forza!

-    Allora vado...

-Vai!

-    Vado...

-    Ehi Ale! In bocca al lupo!

Avevo già attraversato la strada quando Becco ha gridato. Mi sono voltato e loro erano li che mi sorridevano, mezzi fuori dai finestrini, con un braccio teso e il pollice sollevato.
Fa una faccia strana quando mi vede. Non è né sorpresa né stupita. Spaventata, è il termine giusto. Quando ho suonato il campanello, l’ho sentita gridare vado io, forte. Forse erano seduti tutti nella veranda sul retro. Le voci che sentivo attraverso la porta provenivano da li, quella di suo padre e quella di sua madre, di suo fratello piccolo, delle zie, degli zìi, e della nonna.

L’ho sentita attraversare la sala di corsa, i piedi nudi che battevano con piccoli schiocchi morbidi il pavimento di ceramica. Ha anche riso mentre correva alla porta. Una battuta di suo zio in quel dialetto incomprensibile fatto di consonanti dure e di vocali soffocate. E ce l’aveva anche quando ha aperto la porta quel sorriso, ma le è durato sulle labbra una cosa come mezzo secondo. Mezzo secondo e la sua mobilità facciale ha coperto tutto lo spettro delle espressione possibili per andare a congelarsi, alla fine, in quell’unica espressione che non avevo contemplato, lo spavento.

—    Ale, che cavolo ci fai qui!

Mi sembra più bella del solito, cosi abbronzata, e con quella minigonna di jeans stretta e corta e quella minuscola canottiera a righine bianche e blu. I capelli poi, col sole sono diventati ancora più chiari, quasi biondi. Sedici anni, la più bella ragazza della scuola e di sicuro di tutta la spiaggia.

Esce sul patio e accosta la porta. Tiene una mano sul pomel-

lo    e non sembra per niente contenta di vedermi.

—    Si può sapere che sei venuto a fare?

È stato bello la prima volta che abbiamo fatto l’amore, in silenzio e quasi di nascosto perché di là cerano i suoi e potevano sentire. È stato bello perché è stato come scivolare sull’erba bagnata e poi salire in alto, come se tutto quello che avevamo sempre fatto fosse stato solo quello, scivolare sull’erba e risalire. È solo quella l’immagine che mi balza dentro, solo quell’attimo, solo quell’istante assoluto. Il resto è tutta confusione, sovrapposizioni, attimi che girano su se stessi, che si perdono e scolorano.

—    Mi vuoi rispondere?
Quello che provo, adesso che lei è qui di fronte a me, è solo una tensione dentro, una nebbia colorata di sensazioni, solo una gran voglia di fare un salto indietro nel tempo perché tutto possa tornare come prima, perché lei mi manca e mi manca ancora di più adesso che ce l’ho di fronte. E poi, mentre sono li, intontito dalla consapevolezza di essere a pochi centimetri da lei, con il cuore che mi batte, stremato e felice come un cavaliere medievale che ha attraversato mari, monti, e avventure, perché in un certo senso è quello che ho fatto, insomma, mentre sono li con tutto questo tumulto dentro, lo vedo.

Cosi, semplicemente.

Apre la porta e con un sorriso da ebete stampato su quella faccia da imbecille patentato, dice: — Micina, ma chi è?

-    Filippo! Che cazzo ci fa lui qui!

-    Che cavolo ci fai tu!

-    Filippo, vai dentro... - dice lei con un filo di voce, all’improvviso senza abbronzatura e con le mani che le tremano.

-    Non ci penso nemm...

-    Vai dentro!

Filippo torna dentro, rapido come un cagnolino impaurito, e chiude la porta. Io e lei ci guardiamo, e mi sembra dolce adesso

il    suo sguardo. Io, non so se mettermi a piangere o se prendermi

a sberle.

-    Mi dispiace, - dice.

Mi siedo sui gradini del patio, non ho più voglia di guardarla. Lei si siede di fianco a me. Sa di olio solare e di acqua di mare, la sua pelle. Un odore che mi scende giù nel naso per fermarsi sulla lingua, come un sapore. Dolce e salato.

-    L’hanno scorso c’ero io qui con te, - dico.

-    Lo so...

-    Da quanto va avanti?

-    Da prima dei tuoi esami.

-    Perché non me l’hai detto?

-    Perché non volevo che ti distraessi, avevi gli esami...
-    Cazzate! - dico. - Gli esami li ho finiti da un pezzo, no? A me sembra di averli finiti, no?

—    Non volevo farti del male...

-    Adesso capisco perché da un giorno all’altro hai smesso di amarmi! Perché c’era Filippo!

—    Ale, io...

—    Sta’ zitta!

-    Ale...

-    Ho fatto quasi mille chilometri per venire qui, volevo capire, volevo capire com’era potuto succedere, e invece arrivo qui. .

—    Mi dispiace... Te l’avrei detto...

—    Ah, si? E quando? A settembre?

-    Senti! Ti ho detto che mi dispiace! - Si è alzata in piedi, di scatto. — E poi non è colpa mia se ti sei dovuto fare questo viaggio per niente! Non ti ha obbligato nessuno e non te l’ha nemmeno chiesto nessuno!

Si, è vero. Non me l’ha chiesto nessuno. E non è nemmeno colpa tua se io sono qui.

AH’improwiso sento come un clic dentro di me, qualcosa che si rompe in lontananza, qualcosa che si rovescia con un tonfo secco e veloce. E mentre la guardo penso che a volte la realtà sceglie delle vie strane per manifestarsi. Ti fa girare a vuoto, ti rincorre, e ti illude. E poi, quando meno te lo aspetti, si toglie la maschera e ti dice che il gioco è finito.

Ho voglia di camminare. Ho voglia di iniziare a camminare, lentamente, un piede dopo l’altro e seguire la strada. Qualsiasi strada va bene, l’importante è andare, allontanarmi e perdermi un po’.

Devo tenere la testa leggermente bassa e gli occhi socchiusi, fissi sulla punta delle mie scarpe perché il sole è ancora forte e mi batte direttamente sulle palpebre. È fastidioso, ma chissà, magari mi abbronzo. L’importante adesso è camminare senza fretta e aspettare che questa sensazione di sconfìtta o di rabbia o di delusione si dilegui, evapori, si riassorba come un’infezione. Cerco di non perdermi nei dettagli, non lo so esattamente perché, ma questa volta non mi ci voglio perdere nei dettagli. Voglio che questa sensazione di fastidio se ne vada, questa sostanza senza forma che è il disagio voglio che vada via. I due anni insieme a lei si sono sbriciolati, si sono sciolti e sono stati risucchiati indietro, lontano, nel nulla più assoluto. Tutto finito, tutto bruciato, tutto come se non ci fosse mai stato. Una parentesi della mia vita che si è conclusa, una pagina che si è girata indipendentemente dalla mia volontà. La vita non è altro che un susseguirsi di pagine che si girano da sole, di parentesi che si chiudono, e di scatole cinesi. Momenti che sfuggono e che si esauriscono. Tappe, passaggi, soste e altri passaggi. Forse è cosi che deve andare. Sicuramente è cosi. Svolte improvvise, ostacoli, illusioni e scorciatoie. È cosi per Becco, è cosi per Lele, ed è cosi per me. È solo un meccanismo, un congegno preciso e perfetto, l’unico che riesce a governarci. L’unico, in fondo, che riesce a farci crescere.

Ma adesso camminare è l’unica cosa importante, andare per un po’, senza fretta e senza troppi pensieri in testa. Mi ci devo abituare a questa pagina che si è girata.

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