CAPITOLO VENTUNESIMO

Lele è arrivato verso le otto mentre io e Becco stavamo raccogliendo le nostre cose. Abbiamo sentito il rumore dell’auto da loniano e quando Lele è entrato nell’aia e ha parcheggiato, io e Becco ci siamo guardati negli occhi.

Il cielo intanto, da azzurro era diventato viola. Una luna quasi piena, pallida e trasparente e l’ombra leggera delle prime stelle. In basso, lungo la linea dell’orizzonte il tramonto era una striscia tinta di rosso, una macchia sottile di acqua colorata.

Lele non ci guarda. Sposta gli occhi di qua e di là mentre dice ho portato qualcosa, possiamo mangiare e partire dopo...

-    Certo... — dice Becco.

-    Come volete... — dico io.

-    E il fuoco? Fra un po’ farà buio...

-    Forse non ha senso riaccenderlo...

-    Si, ma fra un po’ farà buio...

Non è come le altre volte, questa sera. Mangiamo quasi in silenzio, lanciandoci qualche battuta cosi, giusto per dire qualcosa. Gli sguardi sono occhiate veloci tra una parola e l’altra, sguardi che a volte si intrecciano per poi sganciarsi di nuovo altrettanto rapidamente. E come se aspettassimo qualcosa, l’attacco giusto, per far crollare questa strana atmosfera.

L’auto parcheggiata poco lontano da noi ha la portiera dalla parte del guidatore aperta. La luce gialla dentro l’abitacolo ha qualcosa di freddo e cupo, come cupo è il ronzio sommesso della radio accesa, un pezzo jazz di Chet Baker che dice la festa è finita, la festa non è mai cominciata...

—    Se volete possiamo partire domattina La voce di Lele mi blocca mentre sto addentando il panino. Con la coda dell’occhio vedo che anche Becco ha sollevato lo sguardo su di lui.

—    Ci vorranno ancora circa cinque ore, forse qualcosa di più... Domani siamo a Gallipoli, cosi hai tutto il tempo per parlare con lei...

Io e Becco ci guardiamo. C’è qualcosa che non va in Lele. Becco giocherella con la carta che avvolge il panino, la stropiccia schiacciandola tra i polpastrelli e poi la distende.

—    Cosa è successo?

—    Niente... — dice Lele.

—    Nemmeno tu vuoi partire?

—    È che sono stanco, e guidare di notte...

Appoggia il panino mangiato per metà sul suo sacco a pelo, beve un lungo sorso di coca dalla lattina e si alza. Si scrolla le briciole di dosso con piccoli colpi della mano, secchi e precisi, e si dirige verso la macchina. Le mani nelle tasche e le spalle curve.

Ascolta lo stereo al buio, un braccio fuori dal finestrino aperto e l’altro abbandonato sulle gambe. Quando io e Becco saliamo in macchina, Lele gira la testa dall’altra parte. Rimaniamo un po’ cosi, in silenzio ad ascoltare il ritmo jazzato dei Morphine, una rincorsa di batteria e sax che riempie l’abitacolo di note calde e scivolose. Ci lasciamo andare sul sedile, io davanti e Becco dietro. Lo sappiamo che Lele deve dirci qualcosa, lo sentiamo, è come una corrente che ci unisce, e quando Lele si sporge in avanti per abbassare il volume capiamo che il momento è arrivato.

—    Non è vero che ho dimenticato il carica batterie a casa di Melissa, - dice tutto d’un fiato, gli occhi fìssi oltre il quadrato del finestrino, oltre il fuoco a pochi metri da noi, oltre la campagna nera, e oltre il buio che ci avvolge.

—    Non è vero che non c’era nessun modo per avvertire qualcuno. Avevo una batteria di ricambio dentro il baule. Avremmo potuto chiamare un carro attrezzi, farci portare a Villafranca, noleggiare un’auto e proseguire.

Le parole di Lele mi arrivano dritte nel cervello. Sono lame che mi passano dentro, ma in modo lento e indolore. Lo ascolto senza muovere un muscolo, e mentre lo ascolto mi rendo conto di non essere affatto sorpreso da quelle parole. Come se in un certo senso sapessi già tutto.

—    Forse non ci sarebbe stato comunque modo di proseguire, però resta il fatto che vi ho raccontato una balla... Il fatto è che...

—    Allora è vero che non ci volevi andare in Inghilterra? — dico.

—    Ormai non ha più importanza.

Lo guardo. La nuca rasata e la porzione di profilo. Il movimento veloce nella linea della sua gola mentre deglutisce.

—    Evidentemente le telefonate che facciamo ci portano sfi-ga... - sorride. - Stamattina ho chiamato a casa, non so perché l’ho fatto. Mia madre ha detto che è da ieri che cerca di rintracciarmi, e ieri, mentre io ero qui a raccontarti dei miei genitori, Ale, i miei genitori non c’erano più, mentre ti parlavo di mio padre e del fatto che gli volevo bene lui faceva le valigie e se ne andava. Quando ha visto che non tornavo ne ha approfittato... Non è servito a niente fare di tutto per non partire, non è servito assolutamente a niente... Sono stato uno stupido...

—    Lele, tu non potevi sapere...

—    Non è quello il punto!

—    L’avrebbero fatto comunque!

—    Ma perché cosi? Perché in questo modo? Ale, quanto poco devo contare per lui se ha avuto il coraggio di farmi questo?

Dice, non m’importa più di niente adesso, non mi importa più di lui. Dice, di lui mi fidavo, gli volevo bene, a lui. Dice, non mi sono mai sentito cosi solo. Dice, mi sono sbagliato e per lui non conto niente. Anche quando mi portava alle giostre e al cinema, a lui, di me non importava nulla.

Dice queste cose, Lele, le ripete e le ripete per sfogarsi e per ferirsi, perché se le cose le diciamo con rabbia tutto il dolore diventa più sopportabile, come se fosse colpa nostra, e allora forse fa meno male. Dice tutte queste cose, Lele, con la voce che trema e incespica sulle parole e gli occhi lucidi e grandi ma senza lacrime. Perché Lele, a piangere, non è abituato.

Ha una storia assurda, questo viaggio, una storia fatta di incastri e sfumature, di cose imparate e di cose perse. Piccoli tasselli impazziti che cercano un loro ordine, e un gigantesco flipper di palline che si scontrano. Cose di altri che un po’ diventano anche tue.

—    Io lo sapevo della batteria del telefono.

Io e Lele ci giriamo quasi contemporaneamente. Becco è seduto esattamente al centro del sedile posteriore e ci guarda. Da quando siamo entrati in macchina è la prima volta che parla. E lo fa con quel suo solito modo tranquillo e misurato.

—    Quella di ricambio, l’ho vista nel baule il giorno che siamo rimasti a piedi, mentre tu rincorrevi Ale... Io lo sapevo.

—    Se lo sapevi perché...

Becco solleva le spalle. - Perché immaginavo avessi un buon motivo per mentire, doveva essere qualcosa di importante... Sapevo che i tuoi si stavano separando e sapevo che per questo non volevi partire per l’Inghilterra. Insomma, a me sembrava un buon motivo...

Lele ci ha guardato. Prima Becco e poi me. Non ha detto niente, non subito. Ci ha fissato con quello sguardo che ho imparato a conoscere da quando questo viaggio è iniziato, lungo, lento e denso. Anche quello di Becco era uno sguardo strano, con quella scintilla in movimento che nemmeno lui aveva prima. Io non lo so come li ho guardati, però quando i Morphine hanno iniziato quella canzone che dice lo so qual è il problema e lo so cosa c e che non va perche tu sei come me e io lo so, ci è venuto da sorridere.

È stato dopo, nel momento in cui il sax si gonfia per spingersi in alto e la batteria si fa lenta e morbida che Lele ha detto quella cosa, mi vergogno un sacco... ma sono davvero contento che ci siate voi due.

Non importa se questa notte ci addormenteremo con fatica. Ci basta stare sdraiati attorno al fuoco in silenzio, gli occhi allargati nel buio, a fissare le stelle.

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